Maternità come esperienza radicale
di Gaia Benzi
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Come la povertà, la malattia, la violenza razzista e quella di genere, anche la maternità è un’esperienza radicale, cioè un’esperienza che nel suo radicarci profondamente in un corpo a cui non possiamo sfuggire e che assurge al centro della nostra vita psichica, emotiva e relazionale produce radicalità. La radicalità della maternità, prima ancora che politica, è percettiva, esistenziale. Il mondo assume contorni nuovi, è in atto un processo di svelamento. I limiti oggettivi dati dalle barriere di genere, classe e razza invadono il campo visivo, tracciando i contorni di ciò che è possibile e ciò che non lo è: le scelte imposte dalla maternità si scontrano subito con le possibilità materiali e le opzioni disponibili per affrontare gestazione, parto e prime cure, con il trattamento che il personale medico riserva ai nostri corpi enfiati a seconda della loro provenienza geografica o di censo, con le reazioni che quei corpi suscitano nei nostri parenti, nei nostri superiori e colleghi di lavoro, all’interno e all’esterno della nostra cerchia sociale.
Il corpo gravido è un corpo pubblico di proprietà collettiva, sul quale tutti e tutte sentono di poter sindacare. Non c’è freno alle domande impudiche, ai divieti e alle illazioni su come dovrebbe o non dovrebbe essere, su cosa dovrebbe o non dovrebbe fare la persona incinta, che ora non è più individuo a sé stante – se mai lo è stato – ma corpo-macchina responsabile della riproduzione della specie[1]. In realtà, ogni corpo di donna in età fertile è già gravido, almeno in potenza, dunque soggetto a questo processo di appropriazione, e ogni donna crescendo lo scopre a sue spese; ma la gravidanza, in quanto realizzazione finale e obiettivo implicito di questo processo, lo porta a un livello ulteriore.
Quando, incinta ormai al quinto o sesto mese, la pancia ha iniziato a sporgere dai maglioni larghi presi in prestito a mio marito, sono rimasta sconvolta, più che stupita, dalla facilità con cui perfetti sconosciuti, in luoghi pubblici e generalmente neutri come supermercati, parchi o metropolitane, commentavano la mia situazione e giudicavano i miei comportamenti ad alta voce. Alcuni conoscenti, addirittura, allungavano istintivamente le mani verso la pancia tonda, in un gesto irriflesso di dominio che tradiva il mio essere ridotta a mero contenitore, oggetto a disposizione, strumento non-umano. L’invasione della sfera intima che avevo sperimentato dalla pubertà in poi, nel suo duplice aspetto di sessualizzazione e repressione del corpo e dei suoi istinti, mi è esplosa in faccia con rinnovata violenza e si è moltiplicata all’infinito.
Ma è stato soprattutto nel confronto con la sfera produttiva che l’esperienza riproduttiva si è rivelata portatrice di radicalità. Nei mesi precedenti la gravidanza stavo vivendo una situazione molto dolorosa sul luogo di lavoro: oltre a essere l’unica donna e l’unica dipendente della cooperativa – dunque in una condizione di squilibrio di potere e fragilità strutturali – da diverso tempo ero soggetta a un forte mobbing da parte del mio superiore, aggravatosi dopo alcune mie prese di posizione femministe e il manifestarsi della mia opposizione ai suoi continui abusi di potere. Il lavoro mi serviva, ovviamente, e al di là di tutto mi piaceva anche. Tuttavia, mentre stavo cercando di capire come risolvere o arginare la situazione sono rimasta incinta.
A ribellarsi, a quel punto, è stato il mio corpo. Malgrado del lavoro avessi bisogno, se possibile, ancor più di prima – uno dei motivi per cui mi ero decisa a fare un figlio era la prospettiva, promessa, di un contratto a tempo indeterminato – mi sono ritrovata nell’impossibilità fisica di occupare lo stesso spazio del mio abusante, di restare cioè da sola nella stanza insieme a lui senza che la cosa mi provocasse tachicardie, crisi di pianto e crampi addominali: una serie di segnali fisici inequivocabili sull’impossibilità, per me, di continuare ad abitare quel contesto di violenza. Sono stata costretta a fermarmi e, di fronte alla mia fragilità fisica, l’allora datore di lavoro ha avuto gioco facile nel mettermi da parte, lasciandomi a casa al sesto mese di gestazione perché, a suo dire, “non rispettavo più i parametri di produttività dell’azienda”. Improvvisamente, ero diventata un dato statistico: la donna che resta incinta e viene espulsa dal mercato del lavoro. Il mio corpo si era imposto, rivendicando una priorità assoluta e costringendomi a pagarne il prezzo in termini economici.
All’epoca pensai che mi stesse tradendo, perché quando avrei dovuto restare salda nella difesa dei miei diritti ero crollata, sbattuta al tappeto da una condizione che si era imposta su tutto, anche sulla mia volontà. Oggi, a distanza di tempo, penso invece che il mio corpo mi abbia salvata, sottraendomi a una situazione che non ero più in grado di sopportare. La sua istanza totalizzante, irriducibile al compromesso, mi ha spinta a fuggire quella retorica del sacrificio di sé che la società impone da sempre alle donne, soprattutto madri, e che oggi impone ai lavoratori tutti. C’è qualcosa, nel processo generativo, di totalmente estraneo allo sfruttamento senza fine proprio della logica patriarcale dei “parametri di produttività”: un’istanza creativa e vivificante che gli resiste con tutte le forze e dal profondo delle nostre viscere.
È anche a questo che penso quando parlo di maternità come esperienza radicale, esperienza che radicalizza. Quando si dice, certamente cedendo a uno stereotipo invalso, che una madre sarebbe “disposta a tutto” per i propri figli, si sta traducendo in un linguaggio normalizzante e rassicurante la molteplice radicalità dell’esperienza materna. È la potenza generatrice di cui parla Adrienne Rich in Nato di donna[2], la potenza delle voci del Wall of Mums che, nelle manifestazioni di Portland a supporto di Black Lives Matter, intonavano a gran voce: «Feds stay clear, the moms are here!». Una potenza che governa la riproduzione della vita umana sulla terra e per questo atterrisce e spaventa; una potenza che l’istituzione della maternità tenta da sempre di imbrigliare e sopprimere per evitare che le donne possano disporne liberamente.
È per questo che la materialità della maternità, fatta di corpo che genera, corpo a disposizione, che sanguina e allatta e lacrima e abita il mondo umido del post partum, sembra essere un tabù. Un tempo le donne della famiglia e della cerchia sociale più ristretta affollavano la casa della puerpera per dare una mano, creando una rete di cura e condividendo conoscenze e consigli; oggi si resta fin da subito sole, piene di dubbi e costrette a cercare su Google o nei consultori, quando ci sono, supporto e comprensione. Il parto stesso sembra un segreto terribile da non rivelare a nessuno. Un tempo era esperienza tramandata anche a chi madre non era, oggi è relegata nel privato delle scelte individuali, depoliticizzata. Eppure, niente come aver partorito mi ha palesato la centralità delle battaglie femministe sui diritti riproduttivi, prima su tutte il diritto all’aborto: l’idea di costringere una persona a vivere senza consenso nella propria carne un evento estremo come il parto è una violenza ancora più inaudibile, più inaccettabile di prima.
Non è un caso, però, che sulla maternità sia calato un velo, anche in ambito femminista. Parlare di maternità non è mai facile: c’è sempre il rischio di ricadere nell’esaltazione acritica, di scivolare nell’essenzialismo, di produrre nuove retoriche naturalizzanti sull’essere madri come dovere e destino delle donne. Un rischio che corro anch’io, in queste righe, ma un rischio che vale la pena correre, perché l’alternativa è la certezza di veder scomparire esperienze e saperi legati a una parte essenziale delle nostre vite e della vita dell’umanità, e consegnarla a chi, da sempre, pretende di decidere chi ha diritto di nascere e chi no, e come e dove e per quale motivo. Come scrive Silvia Federici in Oltre la periferia della pelle, «generalizzare la maternità rimanendo nel silenzio per paura di dare adito al potere dei provita o di rinforzare le nozioni naturalizzanti di femminilità è, a tutti gli effetti, un precludersi il processo stesso attraverso cui la creatività di queste esperienze può essere recuperata».
Ripensare la maternità in ottica femminista, attraverso uno sguardo che sia finalmente libero dal materno come ruolo idealizzato dalla società patriarcale e che affondi le sue riflessioni invece nei nostri corpi, è un imperativo non più rimandabile. Credo che indagare la potenza vivificante e creatrice della maternità, nutrirci collettivamente della sua radicalità generatrice e condividerla con chi non l’ha vissuta direttamente, andando oltre le barriere del genere e delle scelte individuali, possa aiutarci a mettere a punto strumenti politici di riappropriazione del corpo e del suo utilizzo. Per un mondo che risponda finalmente ai nostri desideri e non più, come oggi, ai “parametri di produttività” delle aziende che lo governano.
[1] Del processo storico che ha portato alla costruzione dell’identità femminile come macchina per la riproduzione della specie parla diffusamente Silvia Federici in Calibano e la strega (Mimesis, 2020).
[2]Pubblicato in Italia da Garzanti per la prima volta nel 1977 con la traduzione di Maria Teresa Marenco e ormai introvabile.