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La fine (senza fine) dell’Architettura
L’Architettura è morta, viva l’Architettura!
La sentenza hegeliana della morte dell’arte rilevava come già nelle chiese gotiche, immerse nell’interiore e nel traforo delle decorazioni in cui “sparire”, l’architettura, non più depositaria di una arché fondativa, si facesse mera techné, luogo di singolari affezioni. Il progetto moderno ha tentato di ricostruire all’abitare i lineamenti di un principio attraverso l’idea di un progresso rivolto a un armonizzato mondo finale. Il fallimento del suo tentativo di ricostruire “la casa di Adamo in Paradiso” è stato rilevato da Manfredo Tafuri, il quale ha letto nel residuale “piacere” dei testi architettonici, un piacere privato che, in “momenti di estatica solitudine”, illudendo di recuperare un’esperienza del tempo interiore non coglie la propria estraneazione dalla realtà. Sarà Rem Koolhaas, caricaturizzando il “tragico” dell’analisi tafuriana, verificata la “fine della guerra”, a condurre quel piacere al mercato, mentre, proprio perché necessitata a misurarsi con il carattere “favolistico” del nostro mondo, l’architettura, interrogandosi sui poteri che muovono le sue definizioni, potrebbe partecipare piuttosto alla liberazione del desiderio. Per Tafuri la consapevolezza della fine degli eroismi si manifestava in opere dalla “inattuale purezza”. Ma le formalizzazioni computerizzate hanno tracciato un nuovo fronte tra l’aspirazione alla libertà dei sensi e quella di rendere il piacere strumento di potere, obbligando l’architettura a sporcarsi nel conflitto. Nella nuova architettura si muove così sia il rischio di allestire schermi ai poteri mercantili che un autentico ethos rivolto alla libertà creativa. È la mappa di queste possibilità che, indagando anche sui moventi filosofici delle nuove esperienze del progetto, questo testo tenta di tracciare.
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