Spettri di ecofascismo pandemico
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Stiamo tutti vivendo, in questi giorni, qualcosa di inedito: centinaia di milioni di persone sono in questo momento rinchiuse in casa in diversi paesi su tutti i continenti, gli spostamenti non essenziali sono vietati, le frontiere sono chiuse fino a diventare impermeabili, la produzione e la distribuzione sono fortemente limitate, i meccanismi di controllo e sorveglianza sono utilizzati in maniera abnorme. Sono anche proibiti gli assembramenti di persone e annullate la maggior parte delle attività, determinando un brutale arresto del normale funzionamento della società, in maniera del tutto imprevedibile e inimmaginabile fino ad appena due mesi fa, con conseguenze che stanno solo cominciando ad emergere ma che si prospettano profonde e probabilmente durature.
Facciamo ora un esperimento mentale. Immaginiamo che le stesse misure fossero prese nell’ambito della lotta al cambiamento climatico, anch’essa un’emergenza di cui sarebbe da criminali irresponsabili rinviare ulteriormente la risoluzione. Di fronte al rischio (o alla certezza) di una catastrofe planetaria dovuta, tra le altre cose, alle emissioni di gas serra, gli Stati potrebbero prendere severi provvedimenti per sanzionare qualsiasi spostamento ingiustificato e qualsiasi attività all’origine di emissioni: interi paesi sarebbero bloccati in una quarantena animata dalle migliori intenzioni, in attesa di un rientro dei livelli di gas serra a valori compatibili con gli equilibri ecologici globali. Difatti, gli effetti benefici della quarantena generalizzata sono già stati osservati in molti paesi e non deve stupire che già su diversi giornali sia stata ventilata questa ipotesi: la legittimazione di uno scenario simile è in effetti cominciata e si sta facendo strada l’idea che la crisi attuale potrebbe essere un passo decisivo per l’affermazione di un nuovo modello economico “meno inquinante”.
Così, in nome della Transizione Ecologica, lo Stato stilerebbe una lista di buone norme che tutti sarebbero tenuti a rispettare: i bravi cittadini, con encomiabile sensibilità ecologica, denuncerebbero chi prende un treno per andare a trovare un amico, chi l’automobile per andare in montagna o, peggio ancora, l’aereo per far visita al figlio che vive lontano. Se vi viene difficile immaginare situazioni del genere, provate a pensare se vi sarebbe venuto facile, qualche settimana fa, immaginare persone normalissime e sane di mente impegnate nella delazione di concittadini impegnati a passeggiare in spiaggia o correre al parco.
Qualcuno farà notare che la situazione di emergenza climatica non è comparabile con l’epidemia: nel caso dell’epidemia ciascuno, mosso dalla paura per la propria incolumità, accetta misure che non considererebbe accettabili in altre condizioni. Questa osservazione non prende in considerazione la possibilità che le misure adottate per far fronte all’attuale emergenza sanitaria non siano tutte giustificabili in termini sanitari. La facilità con cui tante persone stanno confondendo la reale tutela della salute e ciò che è decretato in suo nome è allarmante: cosa succederebbe se, una volta visto che tali misure sono possibili e che sono tollerate, si decidesse di attuarle per altri motivi?
Come società, stiamo già tollerando l’imposizione di norme che non hanno sostanziale legame con l’obiettivo in nome del quale sono prese, ma per le quali tale legame è socialmente costruito a livello del discorso politico. Sebbene molti dei comportamenti dettati dall’attenzione per le regole si sovrappongano parzialmente a quelli dettati dall’attenzione per la salute, le due cose non coincidono: non tutte le misure di controllo sono misure di sicurezza, e non tutte le misure di sicurezza sono misure di controllo. In questo caso è complicato separare i due aspetti, perché la legge è giustificata dalla tutela della salute: la popolazione sta dimostrando obbedienza alle regole credendo, molto spesso non a torto, di proteggere la salute propria e altrui. Ciò significa che qualunque misura fosse motivata da obiettivi moralmente accettabili non troverebbe grandi ostacoli: dipende molto da come si costruisce la narrazione delle misure e degli obiettivi, da che linguaggio si usa per giustificarla, dalla cornice del discorso in cui viene inquadrata.
Come ogni credenza che si rispetti, l’arsenale di norme attuali è accompagnato a livello collettivo dall’elaborazione di rituali e linguaggi comuni, e sta in questi giorni prendendo forma una sorta di mitologia, atta ad esorcizzare e razionalizzare un nuovo tempo collettivo scandito dagli sviluppi dell’epidemia: numeri sui contagi e i decessi nel mondo completamente decontestualizzati ma sciorinati e aggiornati minuto per minuto, su tutti gli schermi indicazioni che collocano la registrazione dei programmi prima o dopo l’entrata in vigore dello stato di crisi, avvisi che ricordano le regole per essere considerati cittadini modello, ingresso del discorso epidemico praticamente in ogni argomento possibile e immaginabile. Tutto ciò plasma le forme di vita all’interno dello stato di crisi, norma i comportamenti e definisce tra le persone nuove relazioni spaziali e temporali, concepite puntualmente come necessarie, senza accettare critiche di alcuna sorta.
Un esempio valga per tutti: si sta vietando, o scoraggiando, di “uscire di casa” con l’obiettivo di ridurre i contatti tra le persone e limitare così il contagio. Ma quest’obiettivo di natura sanitaria è rapidamente messo da parte e sostituito nella prassi dall’accanimento contro chiunque esca di casa, a prescindere dal rischio che ciò potrebbe costituire. Se non si distinguono più le due cose e in molti non vedono l’ora di denunciare comportamenti innocui, è perché il discorso politico che è stato costruito sulla necessità di restare a casa fa saltare l’obiettivo sanitario, e lo utilizza per legittimarsi. E una volta che è saltato, quell’obiettivo non è più necessario, ma dispensabile, e può essere sostituito a piacimento: qualcos’altro si può raccontare in modo da far credere allo stesso modo.
Torniamo quindi allo scenario immaginario in cui, per far fronte a un’emergenza di portata planetaria che mette a repentaglio la salute dell’ecosistema e dunque di tutti (non solo, come ha fatto notare l’antropologo e sociologo francese Bruno Latour, di una parte della popolazione, ma letteralmente di tutti), la soluzione proposta dalle autorità per ridurre l’impatto sul clima sia uno stato di polizia in nome della lotta all’inquinamento. La proposta non sarebbe campata completamente per aria, giacché l’inquinamento è già adesso responsabile di milioni di morti all’anno, e l’emergenza sanitaria è reale quanto quella del COVID-19. Tuttavia, oggi il problema dell’inquinamento è affrontato da più parti come un rischio astratto più che come una minaccia concreta e materiale, e ciò influisce sulla percezione del rischio, che ha sempre una componente irrazionale socialmente costruita (qui il principio è spiegato in merito al COVID-19 ma è di validità generale). Se, per qualche ragione, si smettesse di avere interesse nel minimizzare i rischi dovuti all’inquinamento e cominciassero campagne martellanti e ansiogene sulla sua pericolosità, la popolazione sarebbe propensa ad accettare l’iniziativa autoritaria e coercitiva di un eventuale potere protettore.
Non è del tutto sorprendente che il cambiamento climatico compaia in un discorso formulato partendo da riflessioni su un’epidemia: cambiamento climatico ed epidemia hanno entrambe a che fare con il rapporto tra la specie umana e l’ambiente naturale, il presunto dominio che la prima avrebbe sul secondo, e derivano dal fallimento di tale dominio con conseguente perdita di controllo. Ma la somiglianza tra i due fenomeni non è solo concettuale, indotta dal paragone che viene proposto: il loro legame è più profondo, prettamente materiale, e affonda le sue radici nella biologia e nell’ecologia.
Le zoonosi sono malattie che si trasmettono dall’animale agli esseri umani tramite un evento detto spillover o salto di specie. Negli ultimi trent’anni, la frequenza di nuove zoonosi emergenti è aumentata, e tra le cause ci sono anche lo stravolgimento diretto operato dall’essere umano sugli ambienti e la crisi climatica: temperature più alte o una loro distribuzione anomala possono favorire il ciclo vitale di animali che trasmettono le zoonosi alla specie umana; deforestazione e urbanizzazione, riducendo lo spazio vitale delle specie selvatiche, possono spingerle a contatti più ravvicinati con gli esseri umani; e così via. Esiste una lunga serie di squilibri ecologici causati o favoriti dalle attività umane che possono contribuire alla diffusione involontaria di nuove malattie (come spiegato molto chiaramente qui e qui e qui). Da tempo è ormai noto anche il rischio che il cambiamento climatico, comportando lo scioglimento delle calotte polari, scongeli agenti patogeni potenzialmente molto pericolosi rimasti surgelati nel ghiaccio per decine di migliaia di anni e a cui la nostra specie, come molte altre, non è mai stata esposta.
Dopo il trauma collettivo che la popolazione mondiale sta vivendo a causa della pandemia, non sarebbe difficile far accettare, preventivamente e più o meno stabilmente, misure di contenimento di malattie contagiose ed associate a un alto potenziale epidemico non ancora in circolazione ma che potrebbero esserlo da un momento all’altro a causa degli effetti nefasti che le attività umane hanno sulla natura.
Una volta stabilito un legame tra epidemia e cambiamento climatico (reale e scientificamente vero), si legittimerebbe quello tra emergenza sanitaria ed emergenza climatica (costruito politicamente) e allargandosi la portata del problema si allargherebbe anche la quantità e la natura dei motivi validi per misure di emergenza coercitive per la popolazione. Si assisterebbe così all’affermazione di un linguaggio codificato per affrontare un’emergenza planetaria, nel nome dell’interesse di tutti.
Si potrebbe obiettare che da provvedimenti del genere deriverebbero ingenti perdite economiche, che nessun governante potrebbe permettersi di vedere associate al proprio nome e che nessuna potenza economica potrebbe sopportare a lungo. Ciò è vero, ma solo se diamo per scontato che il potere e l’economia continuino a funzionare allo stesso modo, senza sconvolgimenti radicali negli attuali assetti che reggono il sistema economico. Non è impossibile immaginare un periodo di transizione in cui nascono nuovi poteri e se ne rafforzano alcuni già esistenti, per esempio con l’affermazione capillare di nuovi strumenti estrattivi basati sulla tecnologia del controllo e della sorveglianza, soppiantando la produzione materiale, magari robotizzata, come fulcro del sistema economico. Se è vero che tutto questo sembra fantascienza, è anche vero che fino al 9 marzo ci sarebbe sembrato fantascienza ciò che è accaduto a partire dal giorno successivo. Difficile da immaginare adesso, ma non impossibile: giganti come Google e Amazon e altri servizi online come quelli per la consegna di cibo a domicilio stanno già traendo profitto dall’attuale situazione di stallo economico, si stanno imponendo come attori (non solo economici) cruciali e un perdurare di queste misure darebbe loro un potere enorme ridefinendo così gli assetti del capitalismo globale.
Il cambiamento climatico non è l’unica cornice in cui sarebbe possibile giustificare il prolungamento indeterminato e la normalizzazione dello stato di cose attuale. Come già accennato, diversi economisti hanno già cominciato a parlare dell’emergenza sanitaria come di uno spartiacque che segna il possibile inizio di un nuovo modello economico. Nel frattempo, però, incombe la crisi: la sospensione della normale vita economica sta avendo infatti conseguenze disastrose e potrebbe provocare, accelerare o approfondire una recessione economica mondiale che si prevedeva comunque già da anni, di proporzioni maggiori di quella del 2008.
Di fronte a queste prospettive, passata la crisi sanitaria, i governi e le istituzioni di governance saranno chiamati a prevenire o attutire i danni. Il rischio è che la crisi economica venga raccontata come una crisi all’interno di quella sanitaria (nonostante sia piuttosto vero il contrario, alla luce di quanto detto sopra): ventilare una continuità tra l’attuale crisi sanitaria e la prossima crisi economica senza inquadrare veramente la prima all’interno della seconda e la seconda all’interno della questione ecologica è la premessa per il mantenimento, almeno in parte, delle misure messe in atto nell’ambito della crisi sanitaria. Se il sistema tenterà di socializzare le perdite e di privatizzare eventuali profitti, come c’è da aspettarsi, si assisterà a politiche di austerità draconiane senza precedenti con, in più, la sospensione a tempo indeterminato del diritto di sciopero, di tutte le manifestazioni e gli assembramenti, la messa ai domiciliari praticamente di tutta la popolazione, il controllo di ogni spostamento e la sorveglianza generalizzata in nome di norme di prevenzione sanitaria. La paura dell’epidemia continuerà ad essere agitata minacciosamente per molto tempo, e non senza fondamento giacché il sistema economico crea continuamente le condizioni per la sua nascita, propagazione e articolazione a vari livelli: ciò costituisce il preludio dell’ecofascismo.
Prima di concludere, occorre fare una precisazione: di certo nessuno dotato di senno potrebbe pensare adesso che lo stato attuale, adottato in via del tutto eccezionale e in una situazione di emergenza, possa essere prolungato tale e quale più di tanto né diventare una condizione di normalità, ma le crisi aprono sempre delle possibilità non immaginabili nel paradigma precedente e in questo spazio di possibilità si possono produrre nuove prassi, regole, forme di vita che poi restano anche a crisi finita. La narrazione dominante dell’epidemia è velleitariamente scientista e sostanzialmente totalitaria: vorrebbe dare tutto in gestione ai tecnici e non tollera la messa in questione di alcuna decisione. L’importanza dell’attuale emergenza sanitaria è reale, la forma che questa importanza assume e il modo in cui essa si articola nella società sono costruite e determinate dai rapporti sociali e da scelte politiche.
L’esperimento mentale qui condotto prende le mosse dalla realtà delle misure prese e permette di immaginare la possibilità dell’ecofascismo: un potere autoritario che tragga la propria forza dalla necessità di far fronte agli squilibri ecologici (ma che di tali squilibri avrebbe incessante bisogno). La crisi da COVID-19 mostra quali forme potrebbe assumere un siffatto potere e si configura come precedente per l’affermazione di una prassi collaudata per affrontare emergenze planetarie: oggi è il COVID-19, domani potrebbe essere altro.