Adattamento Oscuro
Correva l’anno 2006. L’Italia era in piena campagna elettorale, dove un Berlusconi energico aizzava la platea di Confindustria urlando e allora siate positivi, siate ottimisti, un imprenditore ha il dovere dell’ottimismo! Molti penseranno che erano le solite frasi fatte, propaganda per i tempi passati, ma in realtà quelle semplici parole sono il riflesso di un pensiero ben più profondo, che pervade la nostra società fin dall’ascesa del modello industriale-tecnologico avvenuta tre secoli fa.
In quel periodo, le grandi rivoluzioni politiche, sociali e culturali/scientifiche diedero uno slancio enorme all’evoluzione della nostra specie, spalancando opportunità mai viste prima di benessere materiale. Per millenni l’umanità aveva sofferto malattie, carestie, rimanendo legata al ciclo della natura, ma l’intraprendenza umana riuscì a rompere progressivamente questo legame usando la tecnologia. Tecnologia che diventò lo strumento definitivo per la Rivoluzione Industriale e la crescita esponenziale.
Uscito il genio dalla bottiglia e aprendosi vallate dorate per la nostra specie, l’ottimismo, la felicità, il progresso, divennero le parole d’ordine per la nuova Era. La corrente filosofica e culturale del Positivismo si impose in lungo e in largo nell’Occidente, mentre nulla sembrava poter arrestare “le magnifiche sorti e progressive”. Ovviamente sotto questo luccichio la Modernità aveva già dato prova dei propri inquietanti orrori, fra il Terrore seguito alla Rivoluzione francese e le tremende condizioni di degrado e sfruttamento nelle fabbriche europee.
Alcuni gruppi minoritari, come i Luddisti, cercarono ingenuamente di fermare la Macchina, senza però aver fatto i conti con il suo enorme potere. E nemmeno i successivi ripensamenti intellettuali e filosofici, le grandi devastazioni delle due guerre mondiali, la disumanità “industriale” dei campi di sterminio, riuscirono a scalfire fino in fondo il mantra del nostro Sistema: bisogna essere ottimisti, il progresso ci salverà e ci renderà “migliori”.
Questo pensiero, funzionale all’espansione del modello industriale-tecnologico su scala planetaria, continua tutt’ora a persistere come rimedio per qualsiasi problema della nostra specie, compresi quelli causati dal modello stesso. Rischiamo la guerra nucleare, subiamo il cambiamento climatico, alimentiamo l’inquinamento e sprofondiamo in tensioni sociali e politiche pericolose? Non importa, una soluzione tecnologica la troveremo sempre. Sempre.
Peccato che non funzioni esattamente così.
Basterebbe aprire un libro di Storia per notare come “il legno storto”, ovvero la nostra specie, ha visto l’ascesa, l’apogeo e la fine di innumerevoli civiltà. Alcune con transizioni più o meno violente, altre con la vera e propria estinzione della popolazione vigente. L’imperfezione umana, le molteplici variabili naturali e il caso, fanno si che prima o poi tutto finisca. Una cosa che per alcuni suonerà anche piuttosto banale, se non fosse che quasi ogni civiltà pensa di essere quella finale, definitiva, eterna, finalmente forte da resistere all’inevitabile declino. E quella che più di tutte ha interiorizzato questa cosa è la nostra, accecata dall’immenso progresso materiale conseguito in poco più di due secoli, che ha fatto credere di potere trovare sempre una magica via risolutiva. Anche di fronte ai problemi più complessi, come il cambiamento climatico.
Un cambiamento scoperto decenni fa e preso seriamente in considerazione solo a partire dagli anni ’80, di fronte all’evidenza scientifica che qualcosa stesse andando profondamente storto nel nostro habitat naturale. L’industrialismo, tanto esaltato per generazioni e generazioni, basato automaticamente su un disequilibrio funzionale, ha presentato il conto del suo sviluppo: la pericolosa e rapida alterazione dell’ecosistema, con inevitabili conseguenze a cascata per la nostra civilizzazione.
Questa scoperta è stata progressivamente accolta dalla nostra specie con sentimenti e comportamenti contrastanti, a causa del suo messaggio eretico – il Sistema è il problema – che va ad intaccare le fondamenta della nostra civilizzazione. Un qualcosa di indicibile per coloro che hanno basato tutto il nostro benessere sulla materialità.
Proprio per questo motivo la reazione di fronte al pericolo ha trovato tre principali vie: la negazione del cambiamento climatico, con l’aiuto interessato da parte delle industrie fossili, che però mostra sempre più la corda di fronte alla realtà. La piena accettazione del problema, ma senza rimettere in discussione le fondamenta del Sistema, puntando totalmente sulla mitigazione climatica con l’aiuto del modello stesso (la tecnologia salvifica). E infine il mito minoritario della decrescita felice, dove l’umanità prenderà atto dei propri limiti e spezzerà il meccanismo di crescita esponenziale, riconfigurando un intero modello globale in maniera armoniosa e pacifica.
Tre vie che hanno convissuto per decenni, seppure con potere e influenze diverse a seconda della nazione e della società vigente, e che ora sembra vedere trionfare la seconda con la presentazione di enormi piani di riconversione ambientale (Green Deal europeo, Green New Deal, eccetera), accordi internazionali da applicare (Accordo di Parigi) e nuove ricerche in campo tecnologico (ingegneria climatica, fonti rinnovabili, nuovi materiali). Se si dovesse dare ascolto alle parole dei leader europei o di altre nazioni del Pianeta, si comprenderebbe che il problema è diventato urgente, ma comunque risolvibile. Lo stesso mondo ambientalista, estremamente variegato, verte ancora su questa posizione confidando proprio nella risolutezza delle autorità nell’agire. Salvo che la realtà, con tutte le sue ambiguità, sembra indicare una strada tutt’altro che piacevole.
Infatti i piani ambientali, le innumerevoli soluzioni tecniche presentate, partono tutte dall’assunto che la transizione verde sarà pacifica, fruttuosa, rapida ed efficace nei tempi stabiliti e su scala globale, entro due decenni. Nel caso dovessero esserci delle difficoltà strutturali, si confiderà in extremis nel miracolo tecnologico che come un deus ex machina calerà al momento opportuno a salvarci. Considerata l’entità del problema è come se la nostra specie stesse giocando alla roulette russa con 4 pallottole inserite su 6.
Per questo motivo negli ultimi anni si aperto un quarto filone, assolutamente minoritario, che incomincia a prendere in considerazione le teorie dell’Adattamento Profondo. Ovvero la presa d’atto che il cambiamento climatico non sarà risolto nei tempi previsti. Che andrà “gestito” a livello sociale tenendo conto delle molteplici crisi che arriveranno ad ondate. Che il fallimento è possibile, se non probabile.
Uno dei teorici di questo filone, il professore Jem Bendell, ha presentato nel 2018 un documento che ha suscitato scalpore nella galassia degli attivisti ambientali, venendo quasi subito bollato da diversi scienziati come eccessivamente catastrofista, deprimente e non scientificamente accurato. Leggendo il documento si potrebbe concordare con le critiche, se si fermasse unicamente alla questione ambientale. Il quadro però assume tinte decisamente più gravi se si vanno a sommare le altre crisi sistemiche, da quella geopolitica a quella economica, passando per la complessa evoluzione tecnologica, fino alla varie problematiche sociali. Un mix micidiale che solo negli ultimi anni ha attirato diversi studiosi, fino a creare un Centro Studi con l’elaborazione di diverse ricerche.
Purtroppo, questo tipo di analisi raramente influiscono nel dibattito generale, in quanto l’iper-specializzazione richiesta dallo sviluppo moderno ha creato innumerevoli compartimenti stagni, dove gli esperti del settore X finiscono per modellare la realtà sulla propria bolla sociale, per mancanza di tempo, mezzi e curiosità. In questo modo gli economisti difficilmente si interfacciano con gli ambientalisti, così come difficilmente gli esperti di politica estera si confrontano con gli antropologi e i sociologi, mentre i politici, che dovrebbero fare da filtro finale, sono impegnati in basse lotte di potere e tatticismi mediocri, ben accompagnati e addestrati dallo scadente circuito mediatico-culturale.
Ironicamente più il Sistema industriale-tecnologico diventa complesso, più mancano i dibattiti sul suo quadro generale, se non in rare conferenze e dibattiti. Questo purtroppo è l’Errore fatale che stiamo compiendo.
Perché solo osservando il grande schema e unendo le varie discipline emerge la reale portata del cambiamento climatico, combinato con le altre crisi, e la difficoltà spaventosa delle soluzioni proposte. Difficoltà che però viene in un certo senso nascosta, negata, minimizzata, sotto illusioni tecniche, propaganda spicciola, ma soprattutto la paura e lo scoramento.
Parlare di Adattamento Profondo e piani di gestione della crescente crisi climatica ha due pesanti effetti collaterali che per ora ne limitano l’applicazione e diffusione. Il primo è ovviamente l’effetto “depressivo”, tipico del catastrofismo, che viene rigettato automaticamente da innumerevoli persone, specialmente da quelle vitali, attive e risolute nell’ottenere un cambiamento. Il secondo invece è l’effetto “sabotaggio”, ovvero l’accettazione dell’inevitabilità della catastrofe con conseguente abbandono degli sforzi per la mitigazione ambientale e la riconversione verde. Un effetto collaterale che fra l’altro potrebbe favorire i negazionisti climatici e certi potentati economici, con il pensiero “ormai il danno è fatto, tanto vale mantenere lo status quo”.
Questi due effetti collaterali vanno sommati all’ottimismo obbligatorio del Progresso. Ottimismo che considera impossibile un fallimento, impossibile un crollo della nostra civiltà e quindi impossibile la mancata risoluzione del problema. E questo ottimismo, in un certo senso, ha avuto fino ad oggi ragione delle varie predizioni catastrofiche che hanno solcato la Modernità. L’ottimismo della Volontà ha trionfato sul pessimismo della Ragione. O almeno, ha trionfato per qualche secolo.
La combinazione di questi tre elementi rendono inaccettabili le teorie dell’Adattamento Profondo nel dibattito generale, relegandole fra pochi addetti ai lavori, fanatici della fine del mondo e pessimisti cronici.
Eppure, basandoci sulla nostra intelligenza e spirito di sopravvivenza dovremmo considerare tali teorie in un’ottica realista e conveniente, ribaltando anche il pessimismo che si portano dietro come una sporca ombra.
Data la pericolosità mostrata dal nostro Sistema, il suo essere fuori controllo, le variabili impazzite e i fallimenti umani, pensare e rivalutare un piano di adattamento/salvezza è l’equivalente della scialuppa di salvataggio su una nave che affonda. Certo, è mentalmente confortevole rimanere a sentire l’orchestrina del Titanic, ma la scialuppa non è solo la via dei più furbi, ma il mezzo per approdare ad una nuova nave. Ad un nuovo mondo.
Questo non preclude la mitigazione e le riconversioni verdi, che anzi andranno potenziate il più possibile proprio per rallentare il riscaldamento globale. Ma la strada del Green Deal non deve impedirci di vedere le sue difficoltà e pensare allo stesso tempo a mezzi, piani e anche società nuove per gestire un ecosistema mutato e diverso.
L’Adattamento Profondo non è una resa all’apocalisse, ma al contrario il suo antidoto. Per la sua piena attuazione non sarà necessario solo un sano realismo che tratti il Sistema per quello che è, ma anche un’azione rapida, organizzata dalle comunità locali e dagli apparati statali. Ovvero strutture rodate e già presenti sul territorio, le uniche in grado di mobilitare risorse nell’immediato e approntare soluzioni credibili per gestire il mutamento dell’habitat.
Il processo multilaterale e sovranazionale che è stato sbandierato per decenni e culminato nell’Accordo di Parigi, si scontra purtroppo con la situazione sul terreno, ovvero una competizione serrata a livello geopolitico fra molteplici Potenze ed enormi interessi economici/strutturali che rendono l’auspicata coordinazione planetaria sempre più effimera, evanescente, ridotta ad infinite parole, mezzi piani e protocolli poco rispettati. Che piaccia o no, saranno gli Stati nazionali e i loro apparati a determinare la resilienza delle varie società, specialmente ora che la globalizzazione si sta frantumando in un assetto multipolare.
Molti non lo vogliono vedere, ma nei prossimi 20 anni diventerà evidente la battaglia fra l’ecosistema e il nostro modello di sviluppo. Così come la realpolitik, la famigeratissima realpolitik, demolirà parecchie illusioni ed utopie che ci siamo trascinati dietro sotto la momentanea orgia di benessere garantita dalla fragile pax atomica.
Salvo piani ben articolati, in un non lontano futuro l’Adattamento Profondo non sarà più un mix di teorie, ma la vita concreta. Una vita però determinata dalla legge del più forte, dove il ceto più ricco userà il proprio patrimonio ed apparati repressivi pur di salvarsi (e alcuni sinistri episodi li abbiamo già visti negli Stati Uniti e altrove). Dove i più deboli verranno automaticamente sacrificati in nome dell’emergenza. Dove i leader in preda alla disperazione non potranno fare altro che ricorrere alla forza militare ponendo fine alla liberaldemocrazia.
Il passo dall’Adattamento Profondo all’Adattamento Oscuro a quel punto sarà un battito di ciglia… una cosa che non ci possiamo permettere.