Contro la letteratura borghese
di Mick Paolino
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Il 24 luglio, presso la Libreria Sinestetica, si è tenuto l’ultimo incontro per quest’anno editoriale per Oblivion. Il titolo dell’incontro? Contro la letteratura borghese. Da quel partecipatissimo incontro, sono emerse diverse riflessioni. Abbiamo così deciso di dedicare alcuni articoli di D Zine proprio a questo dibattito che, nato internamente a Oblivion, è ormai approdato su giornali mainstream e simili.
Si comincia con Mick Paolino che ha redatto un testo dall’omonimo titolo: Contro la letteratura borghese: buona lettura!
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Qualche sera fa scelgo a caso un film su Netflix e salta fuori un titolo del 2015: Se Dio vuole.
Il film racconta la storia di una famiglia benestante turbata da un problema di presa di coscienza. Tommaso è uno stimato cardiochirurgo, burbero e ateo, che mal sopporta l’apatia della moglie Carla e la presenza della figlia Bianca e del ruspante consorte Gianni. Tutte le sue attenzioni sono rivolte sul figlio minore Andrea che sta seguendo le orme paterne quando, all’improvviso, decide di abbandonare gli studi per diventare sacerdote. La notizia sconvolge Tommaso che inizia a indagare e scopre che il figlio ha preso questa decisione spinto dai sermoni di don Pietro Pellegrini, il sacerdote di una piccola parrocchia di quartiere che però ha un passato turbolento.
Interrompo il supplizio perché siamo già dove volevano arrivare: di fronte a me, si svolgeva la trama del tipico romanzo borghese.
Seguendo la teoria aristotelica, si costruisce una sequenza narrativa in cui lo spettatore può identificarsi con il protagonista e poi gli si fanno accadere tante e tali peripezie da farlo passare dalla felicità all’infelicità. A questo punto si tende all’estremo l’arco narrativo per rafforzare il legame tra spettatore e protagonista fino a giungere all’elemento che scioglie il nodo dell’intreccio attraverso una catarsi. Se l’intreccio è ben congegnato – scrive Umberto Eco nel saggio Il superuomo di massa – suscita le emozioni che si era prefissato quale effetto.
A questo punto il modello aristotelico impone un bivio: la trama si può risolvere offrendo una conclusione consolatoria oppure può lasciare lo spettatore (o il lettore) di fronte a un problema da risolvere. In poche parole si possono distinguere romanzi consolatori e romanzi problematici. I primi giocano sulla soddisfazione delle attese del lettore, offrono un finale conclusivo in cui i nodi della trama vengono sciolti dalla catarsi di uno o più protagonisti che trasmette un senso di esaustività e rilassamento. Tutto è andato per il meglio.
I romanzi problematici invece lasciano il lettore in un limbo di dubbi da risolvere anche e soprattutto dopo che ha chiuso il libro. La differenza tra le due interpretazioni è data dalla gestione della componente emotivo-psicologica.
Il ruolo che si è assunta la letteratura borghese negli anni è stato intercettare questa componente, annullarla con una narrazione rassicurante abusando di stereotipi, luoghi comuni e formule stilistiche prevedibili, in modo che il lettore, alla fine del libro, sia in contatto con qualcosa che conosce già e non sia per nulla turbato.
La letteratura borghese offre quindi solo consolazione.
Le trame dei romanzi borghesi si possono sovrapporre tutte. Gente, spesso benestante, la cui vita viene sconvolta da un evento improvviso che causa una specie di viaggio dell’eroe alla scoperta di se stesso. Si parte dal perché proprio a me, si passa dal non ce la posso fare ma ci provo lo stesso e si arriva al ce l’ho fatta con tanto di sguardo che si perde in un panorama infinito e sorrisino di circostanza mentre una voce fuori campo sussurra: pensati vincente.
Non c’è un’evoluzione psicologica, non si scava all’interno della psiche, anzi la psicologia dei personaggi di questi romanzi è sempre ridotta al minimo per cui le azioni sono forzate e artificiose. Quasi come se avessero cognizione di essere visti da qualcuno, questi personaggi fanno sempre dei pensieri molto profondi e si esprimono con un linguaggio da alta istruzione. Citano filosofi e cantanti. I filosofi e i cantanti giusti, però. Praticamente sono l’estensione letteraria dei loro autori. Il passo successivo è rappresentato poi dal romanzo borghese autobiografico, in cui l’autore mette in mostra tutta la sua cultura e la sua bravura, a partire dalla prefazione scritta dall’amico autore famoso di turno. E che te ne privi?
Il momento clou del romanzo borghese è quando arriva la catarsi. Fino a quel momento la storia vive sulla spinta iniziale del nodo di trama ma a questo punto il nodo viene reciso con un netto colpo di spada e arriva l’illuminazione. Il messaggio finale è sempre lo stesso. I problemi si risolvono. Le cose brutte non durano in eterno. Qualsiasi cosa ti accada la puoi trasformare in benzina per produrre arte e superare l’impasse. Nessuno è malvagio o violento, è solo confuso. Sta aspettando la catarsi che come una plot armor arriverà a redimerlo.
Messaggio implicito: Se non riesci a risolvere i tuoi problemi lo stronzo sei tu.
La letteratura borghese non racconta la verità ma una verità. Il punto di vista dei protagonisti dei romanzi borghesi è sempre quello che viene dall’alto e da quella posizione privilegiata si sente in diritto di appropriarsi dei problemi delle classi sociali popolari, adattarli a un concetto di morale tutto particolare e poi risolverli in un nulla di fatto che non si può applicare nella vita vera.
Nella vita vera l’operaio che non riesce ad affrontare l’ultima settimana del mese non ha i soldi per andare in Tibet a ritrovare se stesso, anzi, non ha nè tempo nè energia per pensare di perdere sé stesso. Se suo figlio gli dice che vuole abbandonare gli studi per diventare sacerdote è anche meglio perché l’istruzione costa ed è classista. Anche nel nostro paese.
Il braccio armato della letteratura borghese è il moralismo usato come esercizio di potere. Il potere di decidere cosa sia giusto provare, pensare, dire e fare. Di spiegare le cose della vita senza averle mai realmente vissute. Di giudicare dall’alto ciò che avviene in basso. Di sollevarsi dalle responsabilità. Di trattare con sussiego chi vive negli strati più poveri della società. Di provare disprezzo per la povertà. Di provare pena per i disperati e allo stesso tempo biasimarli perché la povertà è un marchio indelebile in una società in cui i livelli economici sono invalicabili se vuoi andare dal basso verso l’alto. Di giustificarsi e giustificare gli amici per azioni che invece sono deplorevoli se compiute da qualcun altro. È una morale che va a più velocità. Si adatta, si contorce, si modella intorno alle cose e finisce per soffocarle.
La letteratura borghese addomestica il lettorato offrendo un’esperienza di lettura sicura, morbida e confortevole. Un lettorato coccolato non si farà mai domande. Accetterà le mistificazioni. Applaudirà chi rende difficili le cose facili e chi banalizza le cose complesse. Acquisterà la storia del dolore altrui convincendosi di trovare così pace per il proprio dolore. Si sazierà di concetti, di paroloni, di emozioni vissute per interposta persona. Avrà un sacco di risposte, più di quelle che gli servono. Ma non avrà nessuna domanda e col tempo dimenticherà anche cosa vuol dire farsi delle domande perché la letteratura borghese produce profeti le cui parole sono legge e non devono essere messe in discussione.
E invece un lettorato sano è composto da persone che mettono in discussione la realtà e le sue interpretazioni. Che si fanno domande, tante, e cercano di reperire risposte anche discordanti per farsi un’idea critica delle cose. Che sono affamate di idee, stili e storie che non servono a elevare l’autore o il lettore ma che creano modi di muovere la mente. Che non si accontentano di una spiegazione perché è il guru di turno a darla. Che corrono il rischio di leggere anche qualcosa che può non piacergli. Che vanno oltre l’indottrinamento delle librerie di catena. Che bypassano Amazon e comprano dagli editori e dalle librerie indipendenti.
Un lettorato sano preferisce una consapevolezza scomoda a un conformismo comodo.
Scegliere di evitare la letteratura borghese è un atto politico.