Difendersi รจ un crimine? Il doppio standard della violenza
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Ripensare lโetica dellโautodifesa
La violenza รจ uno strumento di controllo, una forza che plasma i rapporti di potere, ben lontana dallโessere unโanomalia ed รจ strutturale allโordine sociale esistente. Non colpisce in modo neutrale, ma si abbatte con maggiore ferocia su chi รจ giร reso vulnerabile dal sistema: donne, persone della comunitร LGBTQIA+, persone migranti, soggettivitร marginalizzate. La violenza non รจ solo un atto individuale, ma dinamica collettiva, un meccanismo che perpetua gerarchie, subalternitร e disciplinamento dei corpi. In questo contesto, lโautodifesa potrebbe non configurarsi unicamente come reazione o risposta al sopruso, ma come atto politico, come un modo di ri-affermare la propria esistenza e resistenza a certi sistemi.
Difendersi significa spezzare la narrazione che vuole alcuni corpi come vittime passive, soggetti da proteggere o punire a seconda della convenienza del potere. Tutelarsi, resistere significa anche interrogarsi sul significato stesso di giustizia: chi ha il diritto di difendersi? Quando la violenza รจ considerata legittima e quando invece diventa immediatamente criminalizzata? Lo Stato, con il suo monopolio della forza, definisce la violenza accettabile e quella inaccettabile, ma sempre nellโottica di preservare sรฉ stesso e lโordine su cui si fonda. Chi si difende fuori da queste regole, chi si organizza per sovvertire lo status quo, รจ bollato come pericoloso, eversivo, criminale e – perchรฉ no – terrorista.
Lโautodifesa รจ allora una delle pratiche di riappropriazione della propria autonomia, un modo per riconquistare spazi di libertร in un sistema che nega il diritto allโesistenza piena a molt3. Ripensare lโetica dellโautodifesa significa ridefinire il concetto stesso di legittimitร , sottraendolo alla visione normativa imposta dal potere e restituendolo a chi ogni giorno subisce violenza.
Le lotte transfemministe e rivoluzionarie hanno sempre dovuto fare i conti con il dilemma della resistenza attiva: fino a che punto รจ accettabile difendersi? ร possibile costruire un movimento di contrasto radicale se il monopolio della violenza รจ detenuto unicamente dallo Stato? Non cโรจ il rischio di uniformarsi o replicare certe logiche di potere? Chi ha il diritto di definirsi vittima e chi invece viene immediatamente criminalizzato quando si difende? Queste domande sono centrali nella riflessione su giustizia e autodifesa, perchรฉ ci costringono a decostruire le narrazioni dominanti e a riconoscere che la violenza non รจ mai distribuita in modo neutrale. Se alcune vite sono continuamente minacciate e precarizzate, negare loro il diritto di difendersi equivale a legittimare la violenza sistemica che subiscono. Ripensare lโetica dellโautodifesa allora non significa semplicemente giustificare il ricorso alla forza, ma ridefinire il concetto stesso di giustizia liberandolo dalla visione normativa che tutela solo chi detiene il potere.
La questione della violenza, della resistenza e della difesa del proprio corpo ha attraversato i movimenti rivoluzionari, ponendo interrogativi centrali sulla legittimitร dell’autodifesa, sulla criminalizzazione della resistenza e sulle implicazioni etiche del rispondere con la forza all’oppressione sistemica (dello Stato, del maschio, del colonizzatoreโฆ). Se da un lato il pacifismo รจ stato storicamente elemento chiave di molte correnti femministe, dallโaltro il diritto allโautodifesa e persino alla controviolenza รจ stato rivendicato da quelle lotte che hanno rifiutato la passivitร di fronte alla violenza di genere, razziale e di classe.
Elsa Dorlin nel suo testo Self-Defense: A Philosophy of Violence1, offre unโanalisi radicale del modo in cui il diritto alla violenza รจ stato distribuito in modo ineguale lungo la storia. Alcuni soggetti come gli uomini bianchi, gli stati coloniali e le forze dellโordine hanno goduto della legittimitร dellโuso della forza, mentre altre soggettivitร , donne, persone razzializzate, classi subalterne, sono state sistematicamente private della possibilitร di difendersi, venendo al contempo esposte alla violenza di quei soggetti legittimati. Questa negazione dellโautodifesa ha creato intere categorie di individui โindifendibiliโ, corpi esposti, resi vulnerabili da un disegno politico che trasforma la loro stessa esistenza in una condizione di pericolo.
La violenza strutturale non รจ solo una questione di atti concreti di abuso o aggressione, ma una modalitร con cui il potere organizza la vulnerabilitร . Non si tratta semplicemente di un’assenza di protezione, ma di un divieto attivo dell’autodifesa: la possibilitร di difendersi diventa essa stessa un crimine quando esercitata da soggetti oppressi. Questo fenomeno รจ evidente nelle disparitร di trattamento giuridico riservato a chi appartiene a gruppi dominanti rispetto a chi si trova nelle maglie della subordinazione sociale: le donne che si difendono dalla violenza domestica vengono spesso incriminate per omicidio, le persone razzializzate che oppongono resistenza alla brutalitร della polizia sono etichettate come pericolose, i movimenti di liberazione anticoloniale vengono repressi con lโaccusa di terrorismo.

La distribuzione diseguale della violenza
La storia abbonda di esempi in cui il diritto alla difesa รจ stato riservato a determinati gruppi, mentre ad altri รจ stato negato. Nel 1685, il Codice Nero vietava agli schiavi di possedere armi o di portare bastoni, stabilendo che il solo tentativo di esercitare autodifesa fosse punito con la frusta2. Allo stesso modo, in Algeria, durante la colonizzazione francese, agli autoctoni era vietato il possesso di armi, mentre i coloni avevano libero accesso all’armamentario bellico3. Queste dinamiche si ripetono ancora oggi in altre forme: negli Stati Uniti, ad esempio, la percezione della pericolositร di un uomo nero disarmato รจ sufficiente per giustificare la sua uccisione da parte della polizia, mentre un suprematista bianco armato puรฒ essere descritto come un “ragazzo problematico” dai media.
Altro caso emblematico รจ la disuguaglianza nelle risposte delle forze dell’ordine alle manifestazioni di protesta scaturite dall’uccisione di George Floyd nel 2020. In quell’occasione le forze di polizia in numerose cittร degli Stati Uniti hanno reagito in modo estremamente aggressivo nei confronti di manifestanti utilizzando gas lacrimogeni, proiettili di gomma e procedendo a un numero significativo di arresti, talvolta indiscriminati. Al contrario l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, compiuto da gruppi estremisti di destra incitati dalla retorica di Donald Trump, ha visto una risposta sorprendentemente piรน indulgente da parte delle forze di sicurezza. Nonostante l’invasione di uno degli edifici simbolo delle istituzioni democratiche statunitensi, molti dei partecipanti all’assalto sono stati trattati con sorprendente deferenza, alcuni addirittura accompagnati fuori senza alcuna resistenza, come se fossero stati semplici manifestanti. La scarsitร di misure coercitive adottate in quella circostanza, unita al trattamento relativamente benigno riservato agli assalitori, ha messo in luce una chiara disparitร rispetto alla gestione delle manifestazioni di protesta, evidenziando come la risposta delle forze dell’ordine sembri dipendere in gran parte dalla natura e dall’identitร dei manifestanti coinvolti.
Inoltre un aspetto ancora piรน inquietante รจ emerso quando diversi esponenti politici e alcune testate giornalistiche hanno descritto l’evento di Capitol Hill come un atto di patriottismo, minimizzando o addirittura giustificando la violenza esercitata da coloro che avevano preso dโassalto il Congresso. Questa retorica ha ulteriormente esacerbato la divisione tra diverse categorie di proteste, facendo apparire legittima e comprensibile la violenza perpetrata da un gruppo di cittadini che si richiamavano all’ideale di una “patria” da difendere, mentre allo stesso tempo si condannava severamente la manifestazione di altri cittadini che chiedevano giustizia e diritti uguali per tutti.
Nellโambito della violenza di genere la questione assume forme altrettanto brutali e sconvolgenti. Chi รจ costrett* a difendersi dalle aggressioni subisce spesso un trattamento giudiziario piรน severo dei loro aggressori: il caso di Cyntoia Brown, condannata all’ergastolo per aver ucciso il suo sfruttatore sessuale quando era ancora minorenne, รจ emblematico della criminalizzazione dell’autodifesa femminile4. Allo stesso modo la storica impunitร riservata agli uomini accusati di violenza sessuale dimostra come il sistema giuridico protegga strutturalmente gli autori di violenza piuttosto che le vittime.
Nel contesto della violenza di genere, le persone vittime di abusi, comprese donne, persone trans e appartenenti alla comunitร LGBTQI+, non solo devono affrontare il trauma fisico ed emotivo dell’aggressione, ma spesso subiscono una seconda forma di violenza altrettanto devastante: la negazione della loro esperienza. Il sistema giuridico, la famiglia, i partner e i media non raramente dubitano della loro versione dei fatti, minando ulteriormente la loro dignitร e il loro diritto a essere credute. Molte persone che denunciano violenza vengono ridicolizzate, accusate di inventare storie o addirittura giudicate responsabili della loro stessa sofferenza, specialmente quando si tratta di violenza sessuale o abusi legati allโidentitร di genere o orientamento sessuale. Questo discredito nei loro confronti non solo perpetua l’impunitร per gli aggressori, ma le condanna a vivere un isolamento emotivo e sociale, privandole del supporto necessario per superare il trauma. La vittimizzazione secondaria, che puรฒ manifestarsi sotto forma di biasimo da parte della famiglia, dell’entourage o dei media, rende ancora piรน difficile per le persone trovare giustizia e protezione, consolidando un circolo vizioso in cui le vittime sono costrette a lottare su piรน fronti: quello della violenza fisica e quello, altrettanto doloroso, della mancanza di empatia e supporto da parte della societร . Ciรฒ dimostra come in molte circostanze le persone vulnerabili non solo sono costrette a subire gli abusi, ma devono anche affrontare una dura battaglia per vedere riconosciuta la loro sofferenza, un riconoscimento che sembra essere riservato quasi esclusivamente agli aggressori.
Femminismo, autodifesa e rottura con il pacifismo
Nel suo testo Elsa Dorlin sottolinea come il diritto alla difesa non sia semplicemente una questione di giustizia individuale, ma un problema di potere: a fronte di queste disparitร chi puรฒ quindi difendersi senza essere criminalizzato? Chi ha il diritto di essere percepito come una vittima legittima? La risposta a queste domande evidenzia la stratificazione della violenza: se le donne bianche possono ancora sperare nel riconoscimento della loro vittimizzazione – sebbene con certi limiti – le donne nere, sex worker, persone trans e migranti vengono automaticamente sospettate di colpevolezza quando rivendicano il loro diritto alla difesa.
Storicamente il femminismo ha spesso oscillato tra due poli: da un lato la convinzione che la nonviolenza sia lโunica strategia compatibile con la lotta per lโuguaglianza dallโaltro la consapevolezza che lโautodifesa sia una necessitร per chi vive in una condizione di costante minaccia. Il femminismo liberale ha generalmente abbracciato il pacifismo, promuovendo strategie basate sul dialogo e sul cambiamento istituzionale, ma le correnti decoloniali, nere, queer e radicali hanno da tempo sfidato questa posizione, affermando che rifiutare l’autodifesa in un mondo strutturalmente violento equivale a condannare i soggetti oppressi a una posizione di eterna vulnerabilitร .
Barbara Deming pur essendo una pacifista convinta, ha riconosciuto la necessitร dell’autodifesa, affermando che essa non รจ solo un atto fisico, ma anche un rifiuto della cooperazione con chi nega la nostra umanitร 5. Questo รจ il punto in cui il femminismo dell’autodifesa si distingue dalle posizioni piรน concilianti: non si tratta solo di imparare tecniche di difesa personale, ma di riconoscere che combattere รจ un atto di resistenza politica.
I movimenti femministi e queer che hanno praticato l’autodifesa lo hanno fatto in risposta al fallimento sistemico delle istituzioni nel proteggere le persone oppresse. L’emergere di corsi di autodifesa per donne, l’auto-organizzazione delle comunitร LGBTQ+ contro gli attacchi omofobi e la militanza armata dei movimenti rivoluzionari femministi in contesti coloniali e postcoloniali testimoniano la necessitร di rispondere alla violenza con strumenti adeguati. Il caso delle Pantere Nere รจ emblematico: lโautodifesa armata non era una scelta ideologica, ma una risposta concreta alla brutalitร della polizia.

Contro la logica de โle stesse armi del padroneโ
La violenza sistematica e l’autodifesa non sono espressioni della stessa logica nรฉ sono equiparabili in termini di moralitร e giustizia. A differenza della violenza agita da Stato e polizia, esercitata con l’intento di mantenere un ordine sociale che privilegia una minoranza elitaria e opprime le masse, l’autodifesa รจ un atto di resistenza che emerge dalla necessitร di proteggere l’esistenza, la dignitร e la libertร di chi รจ costantemente sotto attacco. La retorica che equipara la resistenza alla violenza sistemica con le pratiche oppressive del potere dominante, il cosiddetto “uso delle stesse armi del padrone”, non solo รจ fuorviante, ma rappresenta un tentativo, lโennesimo, di disarmare politicamente chi lotta per la propria libertร . La violenza strutturale rende le disuguaglianze sociali, razziali, di genere e di classe non solo accettabili, ma necessarie per il mantenimento dell’ordine. La violenza del padrone, che puรฒ manifestarsi attraverso la polizia, il sistema giuridico, le politiche economiche neoliberiste o la normativitร di genere, รจ una violenza legittimata che si auto-riproduce per preservare il suo dominio. Le โarmi del padroneโ sono quelle del controllo: armi giuridiche, economiche, culturali e, in ultima istanza, fisiche, usate per colpire chi resiste a questo sistema. Eppure queste armi non sono semplicemente quelle con cui il potere esercita il controllo, ma quelle con cui definisce cosa sia legittimo e cosa non lo sia. Sono strumenti che vengono giustificati come necessari per la “protezione” dell’ordine anche se in realtร , sono usati per tutelare i privilegi di una classe dominante e per mantenere una societร gerarchica. La violenza strutturale รจ dunque una violenza che si auto-legittima, mentre l’autodifesa รจ spesso criminalizzata proprio in quanto minaccia di questo solido ordine gerarchico.
L’autodifesa, nel contesto di chi vive sotto l’oppressione sistematica, รจ quasi sempre un atto sotterraneo, nascosto, praticato lontano dai riflettori delle istituzioni ufficiali. Essa trova spazio nelle pieghe di una societร che rifiuta di riconoscere la legittimitร della resistenza, in spazi marginali e comunitร che operano al di fuori delle strutture dominanti. Le pratiche di autodifesa si sviluppano nelle palestre popolari, in cerchie ristrette, lontane dagli occhi del potere, spesso lontane anche dalle stesse persone che ne sarebbero piรน direttamente colpite. ร una difesa che non cerca la visibilitร , che non puรฒ contare su leggi protettive e che vive nei margini della societร , spesso pericolosamente ai limiti della legalitร . Questo contrasto รจ emblematico rispetto alle armi del potere, che sono invece palesi, largamente riconoscibili e legittimate dalla societร : le forze dell’ordine, il sistema giudiziario, le politiche economiche neoliberiste e le norme di genere sono tutte manifestazioni di una violenza istituzionalizzata che non solo รจ ampiamente accettata, ma addirittura celebrata come necessaria ed inviolabile.
La disuguaglianza, la discriminazione e l’oppressione sono, per il sistema dominante, visibili e legittime, poichรฉ sono strumenti attraverso i quali il potere mantiene il proprio controllo, mentre la lotta per la propria libertร , per quanto necessaria e giustificata, deve rimanere nell’ombra, lontana dal giudizio pubblico, privata dei suoi mezzi per contrastare efficacemente la violenza strutturale che la sovrasta. Questo divario tra le pratiche di resistenza sotterranee e la violenza istituzionalizzata non solo dimostra la disparitร tra chi detiene il potere e chi lotta per proteggere la propria esistenza, ma mette in luce come il sistema si auto-riproduce attraverso la criminalizzazione di ogni forma di resistenza che minacci il suo dominio.
Ripensare lโetica dellโautodifesa
Rifiutare la legittimitร dell’autodifesa per le donne, le persone queer, le comunitร razzializzate e le classi subalterne significa dunque accettare la loro esposizione alla violenza. La questione non รจ se il transfemminismo debba โacconsentireโ allโautodifesa, ma piuttosto come strutturare la lotta in modo da sottrarre il monopolio della forza ai sistemi oppressivi. Se il mondo รจ giร violento, se il diritto alla difesa รจ riservato ai dominanti e negato ai subordinati, allora รจ la stessa logica della nonviolenza a dover essere messa in discussione. Come scrive Audre Lorde: ยซIl tuo silenzio non ti proteggerร ยป. Neanche il pacifismo lo farร in un mondo che ha giร deciso chi puรฒ vivere e chi deve soccombere.
Bibliografia Diretta:
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Dorlin, E. (2019). Autodifesa: una filosofia della violenza (M. G. Di Napoli, Trad.). Milano: Mimesis.
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Code Noir: รdit du Roi, Touchant la Police des Isles de l’Amรฉrique Franรงaise. Paris, 1687, pp. 28โ58.
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Le Cour Grandmaison, O. (2005). De l’indigรฉnat: Anatomie d’un “monstre” juridique: le droit colonial en Algรฉrie et dans l’empire franรงais. Paris: รditions Amsterdam.
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Boseley, S. (2019, October 23). Cyntoia Brown: Trafficked, enslaved, jailed for life at 16 โ and fighting back. The Guardian. https://www.theguardian.com/global-development/2019/oct/23/cyntoia-brown-long-trafficked-enslaved-jailed-for-life-at-16-and-fighting-back
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Deming, Barbara. (1971). On Revolution and Equilibrium, In Revolution & Equilibrium. New York: Grossman.
Bibliografia consigliata:
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Davis, A. Y. (2011). Women, Race, & Class. New York: Knopf Doubleday Publishing Group.
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Fanon, F. (1961). The Wretched of the Earth (R. Philcox, Trans.). New York: Grove Press.
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Butler, J. (2009). Frames of War: When Is Life Grievable? London: Verso.
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Cevro-Vukovic, E., & Davis, R. (1977). Giรน le mani. Donne, violenza sessuale, autodifesa. Roma: Arcana Editrice.
1 Dorlin, E. (2019). Autodifesa: una filosofia della violenza (M. G. Di Napoli, Trad.). Milano: Mimesis.
2 Code Noir: รdit du Roi, Touchant la Police des Isles de l’Amรฉrique Franรงaise. Paris, 1687, pp. 28โ58.
3 Le Cour Grandmaison, O., De l’indigรฉnat: Anatomie d’un “monstre” juridique: le droit colonial en Algรฉrie et dans l’empire franรงais. Paris, 2005 รditions Amsterdam.
4 Boseley, S. (2019, October 23). Cyntoia Brown: Trafficked, enslaved, jailed for life at 16 โ and fighting back. The Guardian. https://www.theguardian.com/global-development/2019/oct/23/cyntoia-brown-long-trafficked-enslaved-jailed-for-life-at-16-and-fighting-back
5 Deming, Barbara, On Revolution and Equilibrium, In Revolution & Equilibrium. New York: Grossman, 1971
Nota: tutte le immagini vengono da @illicitbookshop, da Cevro-Vukovic, E., & Davis, R. (1977), Giรน le mani. Donne, violenza sessuale, autodifesa. Roma: Arcana Editrice.

