Di Fedayyn, Martiri e pappagalli
E noi amiamo la vita
se troviamo la via per viverla.
Danziamo tra due martiri,
innalzando tra le viole
un minareto o delle palme
Mahmoud Darwish – E Noi Amiamo la Vita
L’angoscia e il dolore sono ancora vivi,
sono ancora qui anche se da tanto tempo non ci sei più;
ma siamo più forti ora che ci hai mostrato
come possiamo vincere la battaglia per la libertà:
se rimaniamo uniti come un sol corpo
Brendan “Bik” MacFarlane – Canzone per Marcella
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Per primi arrivano sempre i pappagalli.
Sono i politici di destra e di sinistra, i miei colleghi giornalisti, addirittura qualche compagna o qualche compagno. Appollaiati sulla tua spalla, mentre hai sotto gli occhi le immagini della Palestina che brucia, ti gracchiano la propaganda imperialista e sionista, di modo che poco a poco si creino in te pregiudizi verso la Resistenza palestinese.
Quante volte abbiamo sentito queste frasi?
“Hamas è il vero problema, Israele accetta tranquillamente i laici di Al-Fatah come interlocutori”. Oppure: “Questo conflitto è molto complesso, hanno sbagliato tutti, anche i palestinesi che sono antisemiti dai tempi del muftì di Gerusalemme e non hanno mai voluto la pace”.
Queste cose le dicono in continuazione, a reti unificate, come un mantra, e prima o poi in qualcuno riescono quantomeno ad instillare dubbi. I pappagalli, sotto il loro piumaggio variopinto, si rivelano vermi.
Questa storia che sto per raccontare vuole prima di tutto chiudere il becco al pappagallo che forse al momento è appollaiato sulla vostra spalla.
È la storia, vera, del Martire e Fidā’ī Mohammed Zubeidi e di suo padre,il fidā’ī Zakaria Zubeidi.
Tubas è una città palestinese a est di Nablus, in Cisgiordania. La Bibbia racconta che Abimelech, primo re d’Israele, l’assediasse per giorni. Oggi, nel settembre 2024, è nuovamente sotto attacco dall’esercito israeliano, che da qualche settimana ha cominciato una operazione militare in West Bank. La mattina del 5 settembre, un drone israeliano colpisce una macchina su cui viaggiavano cinque giovani, tutti morti. La stampa israeliana esulta, con il Times of Israel che pubblica un titolo raggelante: Morto il terrorista figlio del comandante del terrore Zakaria Zubeidi.
Ricordo ancora i pappagalli che dicevano, sui giornali e in televisione: “Il problema di Israele è Gaza, con la Cisgiordania vuole collaborare”
Ed è proprio da Zakaria che parte questa storia.
Zakaria nasce nel campo profughi di Jenin nel 1976. La madre Samira e il padre Muhammad erano due esuli della Nakba del 1948, quando l’esercito israeliano li avevano fatti sfollare da dove vivevano, un piccolo villaggio vicino a Cesarea. Muhammad era stato professore di inglese ma, dopo essere stato arrestato verso la fine degli anni ‘60 con l’accusa di essere membro di Al-Fatah, gli fu impedito di lavorare.
Trovò un lavoro come operaio in fonderia e, per arrotondare, dava lezioni private d’inglese ai giovani del campo profughi, mentre metteva in pratica forme di attivismo non-violento, poiché nel frattempo era diventato un instancabile e appassionato pacifista. Un giorno, l’esercito israeliano lo venne prendere; fu l’ultima volta che Zakaria vide il padre e la prima volta che vide un militare dell’IDF.
Il pappagallo intanto grida: “Israele se la prende solo con i terroristi”
Durante la prima Intifada, nel 1987, mentre i giovani palestinesi sfidano i fucili israeliani con solo un pugno di sassi, a Jenin si presenta una strana signora ebrea che indossa una kefiah: Ana Mer Khanis, militante comunista che crede nella co-esistenza fra ebrei e arabi (suo marito è un palestinese cristiano di Nazareth). Arna, insieme ai suoi accoliti della sinistra israeliana, vuole creare una scuola di teatro per i bambini di Jenin, cercando così di costruire una alternativa alla povertà e alla violenza. Nasce così il progetto della Casa Di Arna, grazie anche alla preziosa collaborazione di Samira che, convinta della possibilità della co-esistenza, offre ospitalità ai volontari israeliani e adibisce la sua casa a palcoscenico per le prove dei bambini, fra cui si distingue proprio Zakaria.
Nel 1989 però il giovane, che ormai ha 13 anni e che come tutti non tollera le brutalità dell’esercito, decide di lanciare qualche pietra a un plotone di soldati. In tutta risposta, gli israeliani gli scaricano contro una sventagliata di proiettili di mitragliatore, che lo colpiscono a una gamba e lo renderanno zoppo a vita. Inizia un periodo in cui Zakaria entra ed esce di galera, per attacchi agli occupanti con sassi e molotov, che termina quando decide di “mettere la testa a posto”, ed entrare in Al-Fatah, durante gli accordi di Oslo del 93. Grazie alle sue doti militari diventa presto sergente, ma si dimette poco dopo disgustato dalla corruzione che imperversa fra i ranghi del partito, all’insaputa di Abu Omar Arafat. Decide allora di andare a lavorare in Israele anche se non gode dei permessi necessari, e per due anni si guadagna da vivere come appaltatore. Quando le autorità lo scoprono, viene per l’ennesima volta arrestato e deporta a Jenin.
Un terzo pappagallo ripete come un mantra “Israele non è uno Stato di apartheid. Moltissimi arabi lì lavorano normalmente”
Nel 2000 scoppia la seconda Intifada, e nell’aprile di due anni dopo Israele invade Jenin e la rade al suolo, con bombe e bulldozer.
Zakaria rimane per giorni intrappolato fra le rovine di un palazzo distrutto, mentre l’esercito blocca gli ingressi ai soccorsi, e quando infine viene fatto uscire scopre che ha perso la casa, il fratello maggiore e, soprattutto, Samira, la madre ormai anziana che per tutta la vita si era battuta per la pace.
Nessuno degli israeliani ospitati da Samira durante il progetto di Arna porgerà a Zakaria le condoglianze.
Un altro strepito, dal secondo pappagallo. Ripete “Israele se la prende solo con i terroristi”
E Zakaria prende il fucile.
Pochi mesi dopo il figlio di Arna, Juliano Mer-Khamis, torna a Jenin per girare un documentario su cosa ne è stato degli “Arna’s Children” (uscito nel 2004), e scopre l’inferno: due si sono fatti esplodere, due sono stati uccisi dai soldati israeliani, uno è in galera e l’ultimo si è unito alla lotta armata.
Zakaria infatti si unisce alle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, la coalizione paramilitare legata ad Al-Fatah, pochi mesi dopo la morte di sua madre, avendo perso ogni fiducia verso la sinistra israeliana.
Con la sua brigata compie una serie di azioni, fra cui un assalto armato contro il seggio elettorale del Likud a Bet Shean, che lo rendono uno dei miliziani più ricercati in tutta la Palestina, nonché uno degli uomini più stimati da Yasser “Abu Omar” Arafat tanto da diventare dal 2004 reggente di Jenin.
Indisciplinato, tanto da dichiarare “Non prendo ordini da nessuno”, e oltranzista, opponendosi alle mediazioni e alle tregue concordate fra Israele, Hamas e Al-Fatah, la linea dura di Zubeidi si manifesta anche nel suo controllo di Jenin simile, se è possibile fare paragoni, con la Barcellona anarchica del 36: la polizia dell’Autorità Palestinese non ha alcun potere (“Disturba il traffico” dirà Zakaria) che invece è controllato dalle milizie che hanno il solo obiettivo della rivoluzione, dando la possibilità ai piccoli criminali di diventare combattenti.
Un pappagallo gracchia “Certamente questo Zakaria è un antisemita”
In questo periodo stringe un forte legame di collaborazione cona una giovane ebrea, ex militante del LIKUD e attivista per la pace, Tali Fahima, che si trasferisce da lui e dichiara di essere pronta a fargli da scudo umano. Arrestata nel dicembre 2004 per “assistenza del nemico in tempo di guerra”, sarà scarcerata solo tre anni dopo.
Intanto Zakaria è sempre più sfiduciato dalla lotta armata: l’arresto di Barghouti nel maggio 2004, la morte di Arafat nel novembre 2004, la leadership ambigua di Abu Mazen e infine la guerra civile fra Hamas e Al-Fatah scoppiata nel 2006 lo convincono a riporre il fucile.
“Guarda, mi è perfettamente chiaro che non siamo in grado di sconfiggere Israele” dice in un’intervista ad Haretz “Il mio obiettivo era che noi, tramite la Resistenza, diffondessimo un messaggio al mondo. Ai tempi di Abu ‘Ammar avevamo un piano, c’era una strategia e avremmo eseguito i suoi ordini… ora non c’è nessuno in grado di guidare le nostre azioni per ottenere… risultati.” E alla domanda “Quindi ammetteresti la sconfitta” risponde “Anche Gamal Abdel Nasser ammise la sua sconfitta, perché non io?”.
Ma la sconfitta non è resa, e nel 2007 Zubeidi riprende i contatti con Juliano Mer-Khamis.
“Sono tutti antisemiti” ripete il pappagallo
Zakaria e Juliano, il combattente palestinese e il regista israeliano, riprendono là dove Arna aveva cominciato, e fondano il “Freedom Theatre”, una scuola di teatro per i bambini del campo profughi con lo scopo di portare a una crescita collettiva della Resistenza e del popolo palestinese.
E’ qui che si svolge una iconica intervista in cui lui, dentro il teatro, davanti a un poster di Che Guevara, dichiara: “Come combattente della resistenza, sentivo che mi mancavano la cultura e la profondità della politica. Pertanto, sfortunatamente, tutto il mio lavoro di resistenza è stato vano. Quindi, sto tornando alla cultura per arrivare alla Resistenza”.
Il Freedom Theatre è attivo ancora oggi ma, nel dicembre 2023, una incursione israeliana lo ha devastato.
“Israele se la prende solo con i terroristi”
Fra il 2007 e il 2011 Zakaria gode di una parziale amnistia da parte di Israele. Mai formalizzata e con l’obbligo di rimanere a Jenin, gli garantisce comunque di non vivere in perenne clandestinità, schivando i continui tentativi di omicidio dell’esercito e del Mossad, e di poter svolgere liberamente (se di “libertà” si può parlare in quelle condizioni) l’attività col Freedom Theatre.
“Cultura e Resistenza sono strettamente intersecate” Dichiarerà “Perché entrambe liberano la creatività”.
Continua intanto la sua attività politica con Al-Fatah, guardando a una mediazione con Hamas e battendosi contro la corruzione dell’ANP, che comincerà a vederlo come una persona non grata.
Forse è per questo che nel 2011, subito dopo che Israele gli revoca l’amnistia, la polizia dell’Autorità Palestinese si presenta a casa sua per arrestarlo.
Sarà detenuto dal maggio all’ottobre 2012, e in questo periodo comincerà un master in cultural studies, che continuerà anche dopo rilasciato scrivendo una tesi intitolata “Il Drago e il Cacciatore”, una disamina delle persecuzioni israeliane contro i palestinesi dal 68 agli anni ’10 con il contributo di testimonianze che Gideon Levy, famoso giornalista israeliano e suo amico personale, gli fornirà.
Siamo nel 2019, e Zakaria è quasi pronto a discutere la tesi, quando l’esercito fa irruzione in casa sua e lo arresta. Non ha commesso crimini, non vengono neanche fornite le ipotesi di reato, è solo un arresto politico che, se fosse stato attuato in Russia o in Venzezuale, avrebbe destato scalpore e indignazione in tutto il mondo.
Quando si tratta di Palestina, però, una parte di mondo resta in silenzio, e probabilmente l’unica motivazione reale di questo arresto è proprio questa: far sprofondare Zubeidi nell’oblio, come migliaia di altri prigionieri sepolti nelle galere israeliane.
Si sente ancora gracchiare: “Non è uno Stato di apartheid”
Ma l’oblio non si confà alla persona di Zakaria.
La notte del 6 settembre 2021c’è fermento nella stazione di polizia di Bet-Shean; solerti cittadini israeliani stanno chiamando la centralina per segnalare inquietanti presenze nei campi, sei uomini che corrono nell’ombra.
Viene data l’allerta alla vicina prigione di Gilboa, un supercarcere aperto nel 2004 per rinchiudere i partigiani palestinesi più pericolosi.
I detenuti vengono subiti svegliati con brutalità, e viene effettuata la conta dei prigionieri: 6 di loro mancano all’appello, cinque militanti della Jihad Islamica e un militante delle Brigate Martiri Al Aqsa: Zakaria Zubeidi.
I secondini entrano nella cella numero 5, dove erano detenuti gli evasi, e scoprono che nel bagno, nascosta da un’asta, c’è un tunnel scavato con i manici delle padelle che attraversa il sistema fognario del carcere e sbuca appena fuori dalle mura. La fortezza inespugnabile è stata espugnata, il sistema panottico israeliano è stato beffato da 6 uomini armati di padella, tanto che più di un commentatore palestinese sui social ironizzerà su quanto questa evasione fosse simile a Le ali della libertà. Mentre in ogni terra palestinese si festeggia la fuga, e Hamas e PIJ plaudono al coraggio degli evasi, la caccia di Israele si fa serrata, allestendo posti di blocco dalla Cisgiordania a Gaza. Due fuggitivi vengono catturati a Nazareth il 10 settembre, mentre vengono visti frugare fra i bidoni della spazzatura alla ricerca di cibo; altri due vengono catturati nell’edificio in cui si stavano nascondendo; la corsa di Zakaria si ferma l’11 settembre, dopo che un arabo israeliano cui aveva chiesto un passaggio lo denuncia alle forze di occupazione.
In Palestina, alla notizia della cattura dei fuggitivi, si scatena un giorno di rabbia con scontri fra manifestanti e polizia, mentre l’amministrazione penitenziaria si vendica dell’onta subita torturando Zakaria in maniera talmente efferata da farlo precipitare, per breve tempo, in uno stato di “morte cerebrale”.
Israele è l’unica democrazia del Medioriente
Il 5 settembre 2024 Tubas è assediata nuovamente dall’esercito di Abimelech.
Fra i cinque giovani rinvenuti nell’auto, c’è Mohammad Zakaria Zubeidi, detto “Hamoudi”, il figlio ventunenne di Zakaria.
Hamoudi, come il padre, faceva parte di Al-Fatah e combatteva per le Brigate Al Aqsa e il Battaglione Jenin, uno dei tanti giovani la cui gioventù era stata martoriata dall’apartheid israeliano.
Nel 2004 Zakaria dichiarò “Mi piacerebbe che mio figlio avesse una vita come tutti quelli che vivono al di fuori della Palestina, che studiasse, che diventasse medico, ingegnere, avvocato… farò del mio meglio affinché accada, ma sarà possibile solo se gli israeliani gli permetteranno di crescere”.
E gli israeliani non glielo hanno permesso, e Hamoudi ha imbracciato il fucile e ora riposa fra gli ulivi, morto senza sepoltura come tutti i parenti di Zakaria.
I pappagalli della propaganda ora tacciono, non hanno più argomenti, per ora.
La vita di Zakaria smentisce ogni narrazione portata avanti dai difensori del sionismo, ogni accusa di antisemitismo e di “fondamentalismo” (parola volgare e strumentale se detta dai fondamentalisti della democrazia delle bombe americane).
È la storia di una persona che si è radicalizzata perché era l’unica opzione possibile per raggiungere la libertà, e la sua parabola mi ricorda le parole scritte dall’anarchico illegalista Jules Bonnot il 28 aprile 1912, poco prima di essere crivellato dai proiettili della polizia francese: «La felicità che mi era sempre stata negata, avevo il diritto di viverla quella felicità. Non me lo avete concesso. E allora, è stato peggio per me, peggio per voi, peggio per tutti. Dovrei rimpiangere ciò che ho fatto? Forse. Ma non ho rimorsi. Rimpianti sì, in ogni caso nessun rimorso».
Fedayyn, combattenti e martiri vivono per sempre.
I pappagalli sono sempre stati morti.