La letteratura e la lettura da privilegi capitalisti ad azioni di resistenza politica e decolonialità
di Romina Arena
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La cultura come merce del capitalismo
Leggere è un atto politico ma è anche un privilegio. L’accesso alla cultura e all’istruzione non è scontato, l’acquisto dei libri e l’esistenza e il funzionamento sui territori di presidi che agevolino la lettura, neanche. Per i processi trasformativi del capitalismo che sottopone tutto al profitto e trasforma tutto in merce, la lettura, che vorrebbe essere un atto di rottura anticonformista e anticapitalista, riprende tutte le caratteristiche del capitalismo fino a esserne addirittura funzionale, come tutta la fruizione della cultura. L’aggancio che lega la letteratura e la lettura al neoliberismo – dice Alfie Brown nel saggio Capitalismo e Candy Crush – è il loro essere entrate a far parte della sfera del divertimento e del godimento che non prevede una dimensione collettiva, ma un approccio individualista – come bene per sé – e monetizzabile. La sottigliezza del confine – e del privilegio – tra leggere letteratura e collezionare orologi sta nel fatto che – afferma Bown – nel cinema, nell’arte e nella letteratura «il godimento prodotto dal loro consumo ci rende orgogliosi perché ciascuno di quei linguaggi veicola un determinato capitale culturale e un giudizio di valore». Leggere è un godimento intellettuale e di maggiore profondità rispetto al collezionare orologi, ma è anche uno status quo che stabilisce una differenza classista dalla quale derivano altre forme di discriminazione come, per esempio, quella abilista: chi legge è più intelligente di chi non lo fa.
La letteratura diventa lo status symbol dell’intellettuale, dell’attivista, di chi fa militanza, di persone impegnate e segna una divaricazione di classe tra chi può permettersi di fruirne in termini di accessibilità, istruzione e possibilità economiche e chi no. Questo riproduce, di fatto, la formulazione classista del capitalismo tra chi gode della cultura perché dispone dei mezzi economici e dell’istruzione per farlo e chi non può farlo perché in una condizione di inferiorità dal punto di vista economico, educativo o da entrambi. Si replicano così due elementi sostanziali del capitalismo: le differenze di classe e il processo di mercificazione.
La mercificazione della cultura ha la visione sociologicamente marxista della lettura e della letteratura il cui orientamento andava dal soggettivismo verso la collettività. Vale a dire nell’unica direzione nella quale dovrebbero andare la letteratura e la lettura per essere veramente considerate strumenti di comunicazione, critica sociale e scambio culturale, e non di profitto e sperequazione sociale. Il libro è un prodotto e, in quanto prodotto, da una parte sottostà alle logiche capitalistiche di mercato, dall’altra alla logica del desiderio. Il desiderio di qualcosa ce ne fa percepire la mancanza. La mancanza è una condizione di sofferenza che va sanata soddisfacendo il desiderio. Il soddisfacimento è strumentale alla merce e al meccanismo di accumulo in cui essa si inquadra come oggetto desiderato. La gratificazione per la mancanza colmata, però, è solo temporanea. In quanto soggetti capitalistici immersi in un sistema capitalistico, ci confrontiamo con un’offerta che arricchisce e satura quotidianamente il mercato di merci nuove e desiderabili, alle quali, pur sapendo che non miglioreranno la nostra vita, non sappiamo resistere e affidiamo la nostra provvisoria felicità.
Il libro non eccettua a questa logica. Il sistema editoriale, il suo indotto e un ritmo forsennato di pubblicazione ha generato e spinto a livelli parossistici e qualitativamente mediocri la feticizzazione della letteratura – mutuata dalla feticizzazione della cultura di György Lukács. Non esiste un account o un profilo in cui non ci si faccia ritrarre con un libro in mano (magari mentre si sponsorizzano padelle antiaderenti e cover di cellulari), standardizzando un messaggio che brandizza la letteratura e monetizza la lettura destrutturandole di significato. Un compulsare massiccio di contenuti del genere immette il libro nel circuito della teoria marxista del feticismo delle merci per la quale il libro non è più soltanto uno strumento di cultura, ma una merce della quale si gode perché esaudisce il nostro desiderio di possesso.
La politica sociale e il privilegio della lettura
Il libro e la lettura non sfuggono al capitalismo perché nulla sfugge a quello che la filosofa politica Nancy Fraser ha rinominato capitalismo cannibale, così forte e pervasivo da permeare tutte le sfere della vita delle persone.
Il capitalismo è un sistema economico in continuo mutamento. Per sopravvivere deve espandersi, investire ciò che ha guadagnato, generare maggiori profitti. Occupa tutti gli spazi che possono essere monetizzabili e si assesta sempre di più in una posizione monopolistica. Monetizzare gli spazi equivale ad alimentare una divaricazione sociale tra chi a quegli spazi può permettersi di accedere, perché può pagarli, e chi ne resta fuori. La fruizione letteraria, i libri, i festival, i laboratori di lettura non fanno eccezione. Considerarli merci del circuito capitalista spiega perché appartengano alla sfera dei privilegi.
La lettura, per i costi e per gli spazi pubblici a essa dedicati, non è tra i percorsi culturali più accessibili e rischia di non essere alla portata di chiunque. In La passione per l’assoluto. Conversazioni con Laure Adler, lo scrittore George Steiner fornisce un trinomio di prerequisiti che la lettura richiede per essere svolta e che diventano anche le tre condizioni che dimostrano quanto essa si sia trasformata in un privilegio e in una variabile non secondaria di politica sociale.
Il primo requisito è «una gran quiete. Il silenzio è diventato una tra le cose più care, più lussuose al mondo. Nelle nostre città […] la tranquillità si paga a peso d’oro». La tranquillità, la quiete, il silenzio e tutte le condizioni che ne favoriscono l’esistenza sono appannaggio delle classi sociali medio alte che hanno la possibilità di disporre di condizioni abitative migliori, nelle zone più attrezzate della città, lontane dai centri suburbani nei quali si concentrano le attività lavorative più rumorose, e lontane dai raccordi stradali più congestionati, in contesti nei quali l’inquinamento acustico è in qualche modo attutito. Tranquillità, quiete e silenzio, di cui chiunque dovrebbe poter godere, sono un privilegio; la possibilità di allontanarsi dalla città è un privilegio; avere una casa è un privilegio.
La seconda condizione è «un minimo di spazio privato. In casa, un locale, anche piccolo, dove poter stare con il libro e dialogare con esso senza che nessun altro sia nella stanza». Anche questo è un requisito che esclude le classi sociali più basse e quei luoghi, come le carceri, nei quali la coabitazione e il sovraffollamento costringono a una convivenza forzata e caotica molte più persone di quante lo stesso spazio possa consentire. In una epoca storica di enorme crisi della condizione abitativa, ulteriormente aggravata, nei costi delle case e degli affitti, dalla pandemia da Covid-19, forse ci troviamo davanti al principe dei privilegi: trovare uno spazio di isolamento nel quale coltivare la propria interiorità e i propri interessi più intimi; disporre di una stanza tutta per sé nel quale risignificarsi come individualità.
La terza caratteristica sembra la più ovvia, ma non è la più scontata: «avere dei libri. Le grandi biblioteche pubbliche sono state la base dell’istruzione e della cultura del XIX secolo e per molte menti del Novecento. Avere, tuttavia, una collezione di libri propri, da possedere e non da prendere in prestito è cruciale. Perché? Perché bisogna assolutamente tenere una matita in mano».
Leggere costa, i libri costano, non sempre le biblioteche sono attrezzate, non sempre esistono biblioteche – o una rete urbana diffusa di biblioteche che possa servire anche le aree periferiche delle città, o una rete efficiente di trasporti pubblici che connettano centro e periferie. Le condizioni di partenza non sono uguali per chiunque, l’accessibilità all’istruzione neanche, e in un sistema sociale nel quale insiste una povertà economica ed educativa che conferma le sperequazioni di classe, leggere non soltanto è costoso ma, proprio in virtù dei costi che non tutte le persone possono affrontare, è un privilegio. Un privilegio complesso che non si può abbattere con militari campagne di sensibilizzazione alla lettura che guardano al volto edulcorato e romantico della lettura senza una presa di coscienza politica sulla realtà del tessuto sociale e scolastico. La romanticizzazione della lettura rende invisibili le problematiche legate alla sua inaccessibilità in età scolare, post-scolare e adulta e omette di discutere le responsabilità istituzionali, la mistificazione della meritocrazia, lo stato dei servizi alle cittadine e ai cittadini, le condizioni del sistema scolastico nazionale.
La romanticizzazione della lettura non tiene conto dell’accessibilità ai libri, il cui prezzo sale parallelamente all’aumento dei costi delle materie prime e dei processi di produzione; dell’esistenza o meno nelle città di biblioteche o librerie o che queste spesso siano lontane dai centri periferici e quindi non facilmente raggiungibili; della sottovalutazione in termini sociali ed educativi del diritto alla lettura. Senza considerare i limiti all’accessibilità, la lettura non soltanto rimane un privilegio ma, nello spettro del privilegio, si colloca nella porzione più estrema riservata alle attività elitarie praticate perché rappresentano uno status symbol sociale.
È possibile sovvertire il privilegio in diritto? È possibile sfuggire alla morsa consumistica che traduce la cultura in bene di lusso? Possono la lettura e la letteratura essere atti politici, rivoluzionari e di resistenza ai danni collaterali del capitalismo? Si può invertire la teoria di Alfie Brown?
Quando si legge un libro accade sempre qualcosa
La scrittrice Jeanette Winterson parla della lettura come di una questione privata. Lo dice però in un senso politico: un atto di resistenza contro la pervasività del controllo da parte di tv, telefoni, internet e dispositivi intelligenti che raccolgono e gestiscono i nostri dati personali. La letteratura ha sempre costituito un momento di rottura nella vita di chi la scrive e di chi la legge, uno spartiacque tra la scelta di omologarsi a un sistema di valori precostituito e la scelta di correre il rischio dell’indipendenza e costruire la propria individualità e la propria militanza a partire da un’alternativa alla norma consolidata. In quest’epoca così assoggettata al tracciamento dei dati, all’iperesposizione della propria vita, la letteratura può diventare un elemento di controtendenza. Mentre il mondo nel quale viviamo ci chiede di non tenere nulla per noi, di condividere tutto ciò che facciamo nella nostra giornata e tutto ciò che pensiamo su qualsiasi argomento, la letteratura e la lettura si trasformano in presidi indipendenti di intimità perché comportano atti che hanno a che fare con la mente, l’unico ambito della sfera privata – ancora – non controllabile. Nessun sistema può intromettersi, a meno che non siamo noi a permetterglielo. Nessuna macchina, nessun gendarme, nessuna possibilità di replicare atteggiamenti altri, di imitare modelli, di ricalcare un’esperienza. Riccardo Mazzeo in Elogio della letteratura afferma:
In un mondo in cui il corpo viene costantemente allenato nelle palestre e mantenuto magro e in forma attraverso le diete, ma finisce per essere dimenticato nella testimonianza di sé che dovrebbe fornire e che invece sguscia tra le dita, proiettati come siamo nelle connessioni virtuali, la mente rimane l’unica manifestazione umana ancora investita di valore.
Dentro la nostra testa la letteratura esplode e si espande e innesca un meccanismo invisibile all’esterno. Apparentemente, stiamo solo leggendo un libro, ma dentro la nostra testa una miccia è stata innescata. Dice Winterson:
Quando leggiamo un libro si sta estendendo ed espandendo quello che siamo e quello che sappiamo. Non è solo conoscenza, come nell’informazione […]. Le cose con la fiction o con la poesia, con la filosofia o i saggi politici sono più che semplice informazione. Ci offrono un modo di riflettere sul mondo, rendono il nostro cervello più intelligente, più acuto. Non si tratta solamente di dati. Tutto nel mondo è ridotto o trasformato in dati. Tutto quello che si può sapere di noi, le grosse multinazionali lo conoscono e forse dovremmo fare in modo che ciò non avvenga.
L’azione conosciuta come gesto di diletto ed evasione è in realtà un atto politico di critica sociale e di resistenza alla colonizzazione dell’immaginario da parte di algoritmi e pubblicità e di un sistema totalitario che sostituisce la verità con l’informazione, la narrazione con il calcolo.
La letteratura conduce nell’unico cono d’ombra non scandagliato dalle telecamere, non setacciato e battuto dall’occhio vigile di Mordor. Se si spezza il tema dell’omologazione e della reperibilità a tutti i costi, la letteratura e la lettura diventano un anacronistico, ma efficace, atto di opposizione al cannibalismo mediatico, al nostro volontario sacrificio sulle piattaforme social; è la terapia d’urto all’estremo bisogno di approvazione che – in un mondo iperaffollato in cui si promette il facile successo e la facile ricchezza e in cui il metro di giudizio sono le spunte, i pollici alzati, i cuoricini – non è che la paura atavica di scomparire, essere niente, occupare il bordo marginale del mondo.
Intelligenza artificiale e società disciplinare. Performare è l’unico modo per esistere
La pervasività delle piattaforme social e di internet ci dà l’illusione di vivere una libertà che siamo in grado di gestire. In realtà, dietro i nostri schermi, dietro i siti che consultiamo, fili ci manipolano, intaccano la stabilità psicologica, si addentrano tanto in profondità alla psiche e ai comportamenti da governare la felicità, la libertà di scelta e il diritto di stabilire il nostro potere d’acquisto.
La tecnologia ha potenziato il nostro desiderio di visibilità. In modo subdolo e non violento ha normalizzato il processo di controllo e sorveglianza del tipo teorizzato dal Panopticon di Jeremy Bentham, che ha come principio «vedere tutto, ovunque, sempre». Non sappiamo quando siamo sotto sorveglianza perché non ne abbiamo un riscontro pratico, ma sappiamo di poterlo essere in qualsiasi momento e proprio questo ci induce ad autosorvegliarci, a incapsulare il controllo nella nostra testa. Assieme al controllo, integriamo la valutazione che da esso deriva, la misurazione delle nostre prestazioni. Diventiamo elementi della cosiddetta società disciplinare, un contesto in cui, attraverso una serie di discipline che educano il corpo e i comportamenti, si plasmano persone docili. Siamo manipolabili, fragili nel desiderio di ottenere consenso e approvazione e diventiamo con facilità vittime del soft power che il marketing, la tv e la rete esercitano su di noi. Scrive Angélique del Rey in La tirannia della valutazione:
Il potere disciplinare è un potere senza corpo, immateriale. Si esercita senza strumenti, a parte la scrittura, grazie a un semplice gioco di luci, uno sguardo che in ogni momento può notare, giudicare, individuare, punire fin dal primo gesto, dal primo atteggiamento, dalla prima distrazione. La volontà che sottomette non ha alcun bisogno di essere incarnata. Perché, come mostra chiaramente il modello del panopticon, chiunque può sorvegliare.
La sua immaterialità lo rende liquido e a noi non offre opzioni per giudicarlo criticamente perché da un lato fa leva sulla servitù volontaria a questo sistema, dall’altro sul nostro senso estetico che coincide con il nostro desiderio di visibilità.
Internet ha decuplicato le potenzialità del potere disciplinare, lo ha trasferito dalla scrittura a ogni macchina che produce e veicola comunicazione e ha reso valutazione tutto ciò che è frutto delle interazioni su quei dispositivi. Saperlo non ci impedisce tuttavia di lasciare tracce, inconsapevoli del fatto – o indifferenti al fatto – che ciascuna di quelle tracce è una pratica di valutazione che ci sottopone a un potere di controllo. Se da un lato il potere disciplinare non reprime, non vieta, non censura, non agisce, insomma, attraverso pratiche violente e manifeste, dall’altro detiene la forza di scuotere la nostra paura più profonda – l’invisibilità – ed è questa che agita come una minaccia per assoggettarci a produrre progresso.
In un sistema di onnivisibilità, la mancanza più grave che si possa commettere è sottrarsi alla società dello spettacolo teorizzata da Gyu Debord senza rendersi conto della pericolosità e della pervarsività del farne parte disintegrando a favore di telecamera la propria sfera privata, mercificando e brandizzando la propria vita, spettacolarizzando e sovraesponendo ogni momento della propria giornata.
Esisto nella misura in cui vengo valutatə. La valutazione definisce la mia identità e la mia visibilità, oltre a stabilire il mio posizionamento nel ranking di gradimento della società. Essere valutatə significa scalare una classifica esponendo quante più informazioni possibili. Qualsiasi strumento permetta di acquisire più visibilità è lecito, inclusa la spettacolarizzazione del privato. Se la dittatura dei social network lo impone, e in cambio promette il massimo della visibilità, si è dispostз a pagare qualsiasi prezzo pur di acquistare popolarità. Tuttavia, più ci si espone nella ricerca di approvazione, più ci si espone anche alla ferocia delle critiche; e se da un lato è facile gestire la gratificazione per i complimenti, dall’altro può avere effetti devastanti l’incapacità di gestire gli insulti e le minacce. Il terreno che la dittatura dei social network dovrebbe incensare è lo stesso che ricopre di fango. La dinamica è la stessa che mette agilmente una persona davanti ai propri pregi – che non ha difficoltà a riconoscere – e la paralizza davanti ai propri difetti – che invece potrebbe avere problemi ad accettare. Le critiche rivolte alla propria attività, alla sessualità, al corpo mettono in evidenza la crepa nell’immagine di sé che si sta costruendo e dalla quale vengono fuori le fragilità. La vita sui social dà visibilità ma anche la persistente sensazione di essere inadeguatə, di dover sempre essere sul pezzo. Scivolare dalla posizione che si guadagna è facile, fin troppo rapido. Il verbo è performare, sempre.
Mantenere alto ritmo e la devoluzione di tempo che impone la vita social, l’iperconnessione in cui tutto invecchia subito e va subito rinnovato, è frustrante. In nome della produttività ci si gioca il tempo libero, la capacità di interagire con persone fisiche e vivere fuori dalla realtà virtuale, ribaltare i parametri di discernimento e di giudizio adeguandosi a quelli imposti dalla rete, la salute mentale, la vita.
Spezzare l’inganno del migliore dei mondi possibili. La lettura e la letteratura come atti rivoluzionari di resistenza
Resistere al richiamo della notifica è impossibile. Procura sofferenza, frustrazione e nervosismo. Vogliamo conoscerne il contenuto, sapere chi ci ha scritto, cosa ha commentato e come e, di fatto, agiamo e comunichiamo solo in funzione di essa. Il linguaggio è plasmato dai like, l’attenzione è dirottata sulle suonerie che ci informano dell’arrivo di una mail, di un messaggio, di un’interazione sui social. Una reazione a catena che ha effetti psicologici importanti e abbassa la soglia dell’attenzione, dilata la percezione del tempo e altera la comprensione delle dinamiche di relazione. Ha anche ribaltato l’ordine tra realtà e finzione, per cui tutto ciò che è dentro lo schermo dei dispositivi è reale e tutto ciò che è fuori è finzione. Tutto ciò che si legge in internet è vero e tutto ciò che si apprende dal dibattito al di fuori di esso è falso, oppure opinabile.
Del resto, lo scopo dei social è fare rimanere incollatiз allo schermo, attirare il più possibile l’attenzione. In altre parole: ci chiedono – e noi lo concediamo senza rendercene conto – più tempo possibile della nostra vita.
Perché questo sistema abbia successo, servono molte informazioni e molti dati che creano il cosiddetto Capitalismo di sorveglianza, il capitalismo che trae profitto dal monitoraggio che i colossi del web fanno sugli accessi delle utenze con lo scopo di garantire il massimo successo agli inserzionisti. Tutto quello che si fa e si produce online è osservato, tracciato, misurato e registrato. I colossi del web hanno una quantità senza precedenti di informazioni su di noi anche grazie alla leggerezza o all’inconsapevolezza con le quali utilizziamo internet e i social, con le quali immettiamo dati sensibili nel sistema. Dati che vengono assorbiti e processati e che vengono restituiti sottoforma di bolla ideale nella quale si trovano le proiezioni dei propri gusti e desideri. Quello che viene restituito veramente è l’immagine ideale che il sistema sta forgiando per noi, un’immagine perfettamente asservita e funzionale alla produzione di profitto per gli oligarchi di internet. Con i dati raccolti costruiscono modelli che prevedono e anticipano azioni e scelte. Ogni video visto, pagina cliccata, contenuto commentato e ogni interazione portano a suggerimenti di pagine, video o contenuti affini in una ciclicità potenzialmente senza fine che costruisce un modello sempre più preciso. Più il modello è preciso, più il sistema è in grado di anticiparci e farci vedere i contenuti che si adeguano al nostro profilo. È la cosiddetta bolla dei filtri, un mondo fatto su misura per noi, che ci appare perfetto e nel quale ci identifichiamo del tutto.
Laddove la rete sembra essere il paradiso delle risorse infinite alle quali ci illudiamo di accedere liberamente autodeterminando le nostre azioni e le nostre scelte, in realtà è uno spazio all’interno del quale siamo costrettз a muoverci sulla base di un algoritmo che a monte sa già quali contenuti mostrarci e a quali altri contenuti farci arrivare. Quello che consideriamo uno spazio libero non lo è per davvero. Ma cosa c’entra la letteratura con tutto ciò?
La letteratura afferma il contrario di quanto professa il sistema dominante. Dice: scompari in questa forma ologrammatica, fugace, fragile e ricompari di carne e di ossa, sfida i tempi, sfida le maree, sfida l’oblio.
È un atto anacronistico della non-contemporaneità teorizzata da Ernst Bloch. Secondo il filosofo, la società è attraversata da più strati di temporalità, tutti diversi fra loro. Il tempo non è uniforme e la sua difformità rende disomogeneo anche lo spazio. In virtù di questa variabilità, anche l’intreccio tra spazio e tempo è disarmonico. In ogni spazio convivono diverse temporalità. Per la filosofa Laura Boella la non-contemporaneità è vivere il presente, eppure viverlo con disagio. Avvertire dentro di esso l’esistenza pulsante di frammenti di passato, di elementi non-contemporanei che fanno in modo di non rendere questo presente pienamente realizzato. La non-contemporaneità mette a fuoco un vivere nel presente scollato dallo stesso presente, perché è un tempo che non coincide con il proprio sé. Agisce la non-contemporaneità chi subisce (o constata) una profonda divaricazione tra sé e l’epoca che vive, provando un sentimento che Boella chiama di estraneità al presente o addirittura di rigetto e desiderio di fuga. Tuttavia, la non-contemporaneità non è un luogo sterile, di abbandono e rassegnazione per un sé anacronistico che male si assortisce coi tempi in cui vive. Al contrario, è una dimensione che consente una lettura viscerale del presente e apre lo spazio a conoscenze ed esperienze nuove e non programmate. La non-contemporaneità non consta necessariamente di tratti melodrammatici, non attecchisce brutalmente dentro esistenze tormentate, non dimora – ed essa stessa non ne possiede le caratteristiche – negli animi scapigliati, avventurosi, decadenti. Viceversa, è uno spazio costruttivo alla continua ricerca di ciò che manca, in un ostinato perseguimento della perfezione. La non-contemporaneità è una forma di lettura emotivamente, spiritualmente, politicamente dinamica nello sforzo – dice Boella – «di rendere comprensibile ciò che avviene», andando alla profondità di una ricerca «di nuove parole e sentimenti». Senza sosta, animata dal dubbio, dalla curiosità, mossa dall’inquietudine e dall’urgenza di decostruire e ricostruire un immaginario del presente che è povero, limitato e limitante.
Le scrittrici e gli scrittori praticano la non-contemporaneità vivendo pienamente le loro epoche e restituendo nella letteratura – attraverso l’utilizzo della narrativa e della poesia come strumenti di esperienza personale e codificazione del reale – la cifra della storia, inclusa la sua esaltazione e la sua tragedia.
La letteratura è un luogo della non-contemporaneità e la lettura è un atto di non-contemporaneità, perché spezzano la fissità e l’immobilismo del presente nello spazio e nel tempo, segnano una dichiarazione di non omologazione, e di indipendenza, dai processi storico-politici del presente. Non perché l’estraneità sia estraniazione ma, al contrario, perché la superiorità del pensiero mantenga libera e pura l’azione «poetica e spirituale» – ancora Boella – di leggere il tempo presente e il rapporto tra gli esseri umani e il tempo presente.
In un’epoca così impoverita, nella quale la leisure economy fa apparire la ricchezza e l’affermazione a portata di mano e fa sembrare tutto facile e immediato, recuperare ambiti che ci mettano alla prova e, sì, ci mettano in difficoltà, è un modo per opporci alla richiesta – che è in verità un obbligo – di dimostrarsi brillanti e à la page, sorridenti e disincarnatз dal dolore, dalla malinconia, dalla tristezza, dal silenzio. Contro un presente che sottopone qualsiasi cosa facciamo e chiunque siamo a un giudizio, un modello, un parametro, uno standard, una valutazione, fino a convincerci che fuori da essi siamo zero e senza qualità spendibili, sulle quali programmare un investimento, un profitto, un upgrade delle competenze, la lettura è un atto rivoluzionario. Ma che cosa è una rivoluzione?
Una rivoluzione è un moto ascensionale – letteralmente moto delle stelle. La parola viene da revŏlvere, voltare di nuovo, rivolgere, ribaltare. È il verbo che segna un cambio di passo, di direzione: l’affermazione di una dissidenza che non è una sterile azione di contestazione, ma è riportare al centro dell’interesse la persona nella sua totalità e nella sua essenzialità, scorporata dalle sovrastrutture – specialmente le neoliberiste – che la schiacciano e la trasformano in una entità identificabile perché ha perso il proprio valore di unicità e diversità. Il gesto rivoluzionario è utopia concreta, sa di non essere compreso perché ovunque è anacronistico e precorritore allo stesso tempo. E, come tutte le utopie, è un gesto d’amore.
Il gesto rivoluzionario della lettura è iconoclasta e radicale nella misura in cui ricerca la libertà dal giudizio, dall’omologazione, dalla fretta, dalla competizione, dalla schiavitù del consenso, dall’ossessione per la visibilità. Libertà da una posizione prona ai voleri dell’economia, del potere, dell’ordine costituito, del mercato, della massificazione dell’informazione, della manipolazione delle menti e delle idee. Riappropriarsi dello spazio della letteratura incarnata nella vita ordinaria e della lettura come strumento di analisi e decolonialità degli immaginari equivale a sottrarle a una idea commercializzata di cultura che fa moneta di tutto ciò che rientra nel proprio ambito. La cultura funzionale al potere non è cultura: è propaganda di regime, è narcotico che anestetizza le menti e le fa ubbidienti, asservite, incapaci di discernere ciò che è buono. La cultura/propaganda spaccia la mediocrità per genialità e insinua che la chiave per la realizzazione personale sia fondata su un mercato nel quale si riceve un compenso – e possibilmente ci si arricchisce con esso – per giocare, creare contenuti divertenti, cucinare in diretta (o ingozzarsi di cibo in diretta o ammazzarsi di palestra dopo aver cucinato e ingollato cibo in diretta), intrattenere con video nei quali si canta, si balla o si sponsorizza qualcosa.
Perché dovremmo accettarlo, perché non riabilitare la nostra intelligenza e ricostituire il valore originario della cultura come asse di azione dentro il nostro tempo e per il nostro tempo; come strumento di una visione radicale e critica del presente? Riconquistare il senso pratico della cultura è tanto la rivendicazione di una lotta per la nostra dignità di persone autodeterminate quanto la rivendicazione dei nostri diritti sui luoghi, sugli spazi, sulle identità.
Se leggere insegna qualcosa, è di non accettare le cose come stanno, di non adeguarsi a uno stato delle cose che usa ogni strumento subdolo per renderci a propria immagine e somiglianza nel pensiero, nelle azioni, nei desideri. Se leggere insegna qualcosa, è di non adattarsi a un sistema precostituito, di non astenersi rinunciando al proprio diritto di scegliere.
Vivere una quotidianità rivoluzionaria, vivere il rischio di difendere la propria integrità, la propria indipendenza, la propria libertà non è un prezzo che si debba pagare come se costasse sforzo sceglierlo, ma una lotta da rivendicare come unica opzione possibile.