Guerra e architettura
Traduzione a cura di Gabriele Lattanzi e Gabriele Rendace Presta
Architettura e guerra non sono incompatibili.
Architettura è guerra. Guerra è architettura.
Sono in guerra con il mio tempo, con la storia, con tutte le autorità che risiedono nella fissità delle forme.
Sono uno dei milioni di individui che non ci stanno, che non hanno casa, senza famiglia, senza fede, nessun luogo sicuro da poter considerare mio, non conosco l’inizio o la fine, nessun “sacro luogo primordiale”.
Dichiaro guerra a tutte le icone e a tutti i fini, dichiaro guerra a tutte le storie che mi incatenano alle mie stesse menzogne, alle mie pietose paure.
Conosco solo momenti, e vite che sono come momenti, e forme che sembrano avere una forza infinita, fino a quando “si fondono con l’aria”.
Sono un architetto, un costruttore di mondi, un sensuale adoratore della carne, la melodia, una figura che si staglia contro il cielo oscuro.
Non conosco il tuo nome. Né tu il mio.
Domani, inizieremo insieme la costruzione di una città.
Questo pamphlet è dedicato ai cittadini di Sarajevo, che sono tutt’ora vittime di un assedio martellante e patologico. Un assedio che ha avuto inizio più di quattordici mesi fa. La mia speranza è che le idee contenute in questo testo, nonostante siano state elaborate a distanza e nonostante ci sia per i cittadini di Sarajevo una grande urgenza, possano in qualche modo contribuire, quando verrà il momento, alla ricostruzione della loro città e del loro stile di vita.
Oggi, le torri bruciano a Sarajevo. I monumenti di acciaio e vetro, eretti dal progressismo illuminato dell’era della società industriale, sono ormai nient’altro che carcasse sventrate, così come i valori e le ideologie che incarnavano. I grattacieli di Sarajevo sono stati i bersagli principali dei cannoni appostati sulle colline, così come lo sono stati i minareti e le cupole delle moschee, la grande biblioteca, l’ufficio postale, gli edifici universitari e tutti gli altri simboli della ragione e della sua promessa di società civile. Una volta dato il via all’uso dei proiettili incendiari non vi è stato alcun modo per salvare quegli edifici. Non solo hanno avuto i mezzi, ma anche un delicato ordito di ragioni per farlo. Le torri incendiate di Sarajevo rappresentano il segno della fine dell’era della ragione, se non della ragione stessa, oltre la quale non vi è altro che un dominio di incomprensibile oscurità.
Ma la guerra non è confinata a questa città, né alla culturalmente complessa penisola balcanica, per la quale Sarajevo era simbolo di speranza e tolleranza, mentre ora indossa una maschera di disperazione. Conflitti armati infuriano in tutto il mondo: in Azerbaijan, Moldova e Georgia, in Afghanistan, Kashmir e Sri Lanka, in Israele e in Libano, in Angola e in una mezza dozzina di altri stati africani, così come in Irlanda del Nord, in Perù e in Colombia. Come un temporale improvviso e violento, un’insurrezione civile ha attraversato l’area centro-meridionale di Los Angeles, lasciando dietro di sé, oltre che una notevole quantità di proprietà devastate, anche l’illusione americana che i cambiamenti violenti e forzati interessassero esclusivamente altre nazioni. In Germania, l’incendio di edifici residenziali popolari ha portato a disordini che esprimono ancora una volta tutta la fragilità del vivere civile, anche nella più ordinata tra le società. Anche se nessuno sano di mente lo avrebbe mai auspicato, sta accadendo che il mondo, in seguito al disgelo tra USA e blocco sovietico, continua sempre più a frammentarsi, incrinandosi come una grande lastra di ghiaccio, tracciando linee nuove e talvolta anche inaspettate. È un quadro spaventoso e desolante, soprattutto alla fine di un secolo in cui orribili guerre ci hanno dato lezioni da non dimenticare sulla follia della violenza organizzata. Ma questa è un’immagine che emerge dalla propria forza crudele, dalla propria essenza disturbante e potenzialmente curativa. Solo attraverso il confronto con essa, con la violenza, ci potrà essere una qualche speranza di cambiare il suo tragico contenuto. Solo di fronte alla follia della distruzione premeditata si potrà ricominciare a ragionare credendo di nuovo in sé stessi.
New York City,
27 giugno 1993
ARCHITETTURA DELLA CONOSCENZA
È realmente oggettiva la conoscenza su cui le persone basano le proprie azioni? E questa conoscenza si relaziona con una realtà indipendente dai processi cognitivi propri di ciascun individuo? Sì, secondo i principi della scienza classica: l’Ideale di Platone, la Dualità di Cartesio, la Meccanica di Newton, la Causalità Classica di Einstein. Questa è una realtà in cui l’autorità risiede nelle gerarchie e negli equilibri statici del determinismo razionale.
Oppure, la conoscenza è esistenziale? Quest’ultima riguarda un mondo in cui l’esistenza precede l’essenza, in cui la conoscenza non può essere verificata attraverso il presupposto di una realtà esterna ai processi della cognizione umana? Sì, secondo i principi della teoria quantistica (la meccanica delle matrici, l’interpretazione di Copenaghen) e della cibernetica (sistemi ricorsivi, chiusi). Questa è una realtà in cui l’autorità si muove, attraverso campi dinamici di sistemi autodeterminati e autorganizzati conosciuti come eterarchici – come nelle teorie dei flussi e del nomadismo di Deleuze. Secondo questo paradigma, la dicotomia tra assoluto e relativo, oggettivo e soggettivo non hanno alcun significato.
Quale tra questi insiemi di principi può essere preso in considerazione? Come ogni buon scienziato (amorale) direbbe, quello che funziona meglio. Come ogni buon esistenzialista (morale) si convince, quello confermato dall’esperienza.
ARCHITETTURA COME INCARNAZIONE DELLA CONOSCENZA
Fare architettura è l’attività che riesce a sviluppare maggior coesione nella società, convoglia diverse energie in un unico flusso complesso. In termini classici, l’architettura è una sintesi socialmente significativa di antiche antitesi: pubblico/privato, arte/scienza, capitale/lavoro. Da quando la società è stata dominata da istituzioni autoritarie che richiedono una conferma esterna per legittimare la propria esistenza (ad esempio il diritto divino dei re, oppure il contratto sociale), l’architettura monumentale ha incarnato una sorta di conoscenza oggettiva. La conoscenza soggettiva è rilevante esclusivamente all’interno della sfera personale e si concretizza in modo idiosincratico in opere private, tollerate dalla sfera pubblica solo in quanto considerate opere d’arte.
Tuttavia, quando la società non può più definirsi in modo classico e deterministico in termini oggettivi, ma solo in termini di continuo spostamento, ovvero in campi fluido-dinamici di attività, allora l’architettura deve abbandonare la monumentalità, perché non esiste una gerarchia di valori, nessuna autorità determinata e nessuna conoscenza esterna all’esperienza umana da codificare.
In una tale società la distinzione classica tra arte e vita scompare. Arte e vita fluiscono assieme, divengono inseparabili. L’architettura, dunque, guarda a sé stessa tramite le sue strutture fluido-dinamiche: con le sue trame, le sue reti, le sue matrici, le sue eterarchie. Entrambe le strutture sociali coesistono allo stesso tempo: la struttura statica e quella fluida, il modello gerarchico e quello eterarchico. Quella che funziona meglio, quella che viene confermata dall’esperienza, dipende unicamente dal punto di vista. Per molti, oggi, la struttura eterarchica altera la possibilità di realizzare il potenziale umano. Per un fondamentalista religioso, è vero il contrario. Una differenza esiste: i due punti di vista non sono né equivalenti né intercambiabili. L’eterarchia, per necessità, abbraccia la gerarchia, ma la gerarchia non può abbracciare l’eterarchia, neppure in una condizione di necessità. Anzi, tende a sopprimerla con qualsiasi mezzo, compresa la violenza intenzionale e la guerra.
GLI IDEOLOGI SBAGLIANO
Pur promettendo libertà di pensiero, gli ideologi hanno promosso una particolare forma di conformismo, che si manifesta attraverso particolari forme di pensiero, ossia le ideologie.
Le ideologie insistono sulla fede forzata, e quindi su una non-scelta. Non ha importanza in cosa differiscano tra loro le ideologie, che siano di destra o di sinistra, che trattino di nazione, razza o religione. La libertà non è altro che la possibilità di poter fare la propria scelta tra un ventaglio il più ampio possibile di opzioni. La libertà di scelta rifugge le ideologie. Anzi, le conduce su un terreno in cui le diverse ideologie sono costrette a porsi in dialogo tra loro. Non è possibile scegliere di non-scegliere.
Gli ideologi impongono la loro fede attraverso il terrore. Affermano che la libertà di scelta porterebbe alla vittoria del più forte sul più debole, dei (se fossero onesti) non credenti sui credenti, dei liberi sui non liberi. La libertà di scelta porterebbe inesorabilmente alla vittoria del male sul bene, del caos sull’ordine. La libertà di scelta, tuttavia, non porta al caos, ma a una nuova e più sottile forma di ordine. Oggi, la conoscenza che si è raggiunta ci permette di scegliere, di plasmare, giorno per giorno, la propria connessione con gli altri. Il diritto umano all’autodeterminazione può essere oggi espresso non solo da un punto di vista ideologico e totalizzante, su una scala nazionale o etnica, ma a partire da ogni singolo essere umano. Il caos è una forma di ordine complessa e non lineare, e gli strumenti intellettuali utili a discernere e articolare questa forma di ordine sono oggi a disposizione di chiunque. Lo sviluppo di nuove tecnologie informatiche e della comunicazione, derivante dalla conoscenza esistenziale, ha permesso di comprendere una nuova forma di ordine nel caos, la forma più appropriata per descrivere l’attuale condizione umana.
Oggi è possibile creare una società formata da diversi livelli, fluida, complessa, ricca di differenze, di possibilità e di scelte. Per il momento queste tecnologie sono controllate da strutture gerarchiche, sia pubbliche che private, che le utilizzano come strumento di dominio, frustrando l’emergere di una nuova società compiutamente umana. Ma questo cambierà.
Di fatto, il cambiamento è già iniziato. La costruzione di nuovo tessuto urbano, là dove i vecchi tessuti sono stati fatti a pezzi dalla guerra, rappresenta una criticità – al di là delle contingenti gerarchie – in cui avrà luogo la lotta per dar vita alle nuove società eterarchiche.
LE ANTICHE CITTÀ ERANO ETERARCHICHE
Composte da complessi strati di edifici e spazi aperti, di impieghi e di reimpieghi, intessute nel corso dei secoli e delle generazioni in un intreccio vivo di significati, le antiche città assorbono, nella loro complessità, le gerarchie che le hanno governate e che hanno tentato di forzare la loro vitalità in rigide strutture che non gli appartengono e mai lo faranno. Le tradizionali gerarchie si sono susseguite e avvicendate, ma le città sono rimaste, sempre più forti e complesse. Solo con l’avvento della moderna cultura tecnologica di massa, le gerarchie riescono a fare propria la complessità delle città – in primo luogo, attraverso un uso intimidatorio dei mass media, e poi attraverso il castigo sacrificale della guerra.
La guerra ha livellato le vecchie città, e questo non solo in senso fisico: ha ridotto la loro complessità, formata da diversi livelli di significato, facendo sì che questi livelli vengano compressi in un solo strato monolivello, che incarna la monologica, monomaniacale struttura della gerarchia portata al suo più logico e terribile estremo: la dittatura del tutto-o-nulla, imposta dalle ideologie radicali e dalla loro razionalità ultradeterministica. Le antiche città vengono compresse dalla stessa violenza, e per le stesse vecchie ragioni. Diventeranno nuove città, o serviranno come modello per città nuove. Quando queste verranno ricostruite, in base a quale forma di conoscenza avverrà la ricostruzione, e a quali fini?
IL CASO CONTRO IL RESTAURO
È naturale voler rimpiazzare qualcosa di importante, distrutto dalla guerra, con null’altro se non esso stesso. Si ritiene che la fenice risorga dalle proprie ceneri. I monumenti culturali e civili di notevole importanza devono, senza dubbio, essere riportati alla loro integrità, come segni di coerenza con il passato che possa servire da modello per la civiltà, ma non come riaffermazione di un ordine sociale ormai passato e concluso con la guerra. Il tentativo di ripristinare il tessuto delle antiche città nella loro condizione iniziale, tuttavia, è una follia che non solo nega le condizioni attuali, ma impedisce l’emergere di un tessuto urbano e di uno stile di vita basato sulle esigenze contingenti. Ovunque si sia tentato di ripristinare il tessuto urbano devastato dalla guerra, rimpiazzando ciò che è stato distrutto, il risultato è stata una parodia degna dell’ammirazione dei soli turisti. L’idea istintiva di riconquistare qualcosa che ormai è irrimediabilmente andato perduto si rifà a una sensibilità fin-de-siècle, che si autodefinisce come prosecutrice di un’epoca implicitamente ritenuta più vivida e potente. Ma l’intricata complessità definita da edifici, strade e città, costruita nel tempo e lungo l’arco di innumerevoli vite, non potrà mai essere sostituita. D’altronde, questo tentativo di sostituire i tessuti urbani è utile agli interessi di decrepite gerarchie, le quali in ultima istanza lottano per legittimare sé stesse attraverso la nostalgia e il sentimentalismo, strumenti attuatori dell’inganno demagogico. Quest’ultimo infatti si rivela come una prospettiva oltremodo confortante e attraente agli occhi di tutte quelle persone che lottano per riprendersi dalla tragedia di profonde perdite personali e culturali.
Nel momento della ripresa, è fondamentale che si articolino nuove scelte e nuove direzioni. Considerato che i governi e le corporation non ne hanno alcun interesse, non ci si può aspettare che siano loro a prendere l’iniziativa di costruire una nuova società a più livelli, quindi l’impulso per il perseguimento di tale obiettivo deve venire dal basso, da persone che comincino a costruire direttamente, senza l’approvazione di qualsiasi autorità. Queste persone devono necessariamente includere qualsiasi gruppo sociale, le cui energie, una volta rilasciate, possano fluire prontamente in un nuovo, complesso e vorticoso corso, composto da atomi distinti, e non sciolti in una marea indiscriminata.
IL CASO CONTRO L’ELIMINAZIONE
È naturale voler cancellare i ricordi della tragedia e della perdita, sostituire con qualcosa di nuovo e migliore il tessuto della città che è stato distrutto e degradato dalla violenza. Questo è stato l’obiettivo dei primi modernisti, che hanno dovuto affrontare il compito di ricostruire una cultura intellettualmente in bancarotta e devastata dal conflitto, dopo una guerra che presumibilmente avrebbe dovuto essere l’ultima di tutte le guerre. Questi architetti d’avanguardia intrapresero una guerra contro loro stessi, sfruttando la violenza del rinnovamento urbano per agire contro il caos delle antiche città, proponendo di cancellare le parti maggiormente corrotte, dal punto di vista concettuale, al fine di costruire città più umane. La loro guerra ha avuto successo, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando alcune città erano già state parzialmente rase al suolo dai massicci bombardamenti aerei, mentre le altre che non subirono bombardamenti, richiedevano grandi progetti.
Ma l’obiettivo di “migliorare” la situazione non fu mai raggiunto. L’architettura modernista, così come la logica positivista che ha dato forma alle sue fondamenta, aveva una struttura gerarchica e appiattita, così come lo erano il tessuto urbano e la cultura che si cercavano così disperatamente di cancellare. L’architettura modernista nasceva da una concezione troppo classica, troppo legata alla concezione di causa-effetto, troppo schiava del suo culto della macchina (e dei suoi processi deterministici) per incarnare lo spirito caotico della nuova era. L’architettura, legata, allora come oggi, alle gerarchie autoritarie, sia di destra che di sinistra, alle dottrine moderniste e postmoderniste, ha mancato la rivoluzione della conoscenza che si è avuta nei primi tre decenni del Ventesimo secolo e che continua ancora oggi. La cancellazione delle vecchie città, al fine di costruire un mondo migliore e più umano, è ormai un concetto ampiamente screditato. Eppure, si è diffuso un sistema totalizzante dello spazio e del pensiero, si è imposto in nome di una causa comune. Ciò è avvenuto in particolare nelle riforme sostenute nella crisi del dopoguerra, quando le città, o le loro parti, venivano concepite come tabulae rasae su cui era possibile ricominciare da zero.
COSTRUIRE SUI RESTI ESISTENZIALI DELLA GUERRA
Ovunque gli edifici siano distrutti dalle bombe o dai proiettili d’artiglieria, da un incendio o per mezzo di un collasso strutturale, la loro forma deve essere rispettata, deve rimanere integra, così da poter incarnare una storia che non dovrebbe mai essere negata. Nel loro stato decrepito, gli edifici suggeriscono nuove forme di pensiero e di comprensione, nuove concezioni dello spazio che confermano il potenziale dell’essere umano di integrarsi, e rimanere esterno, a ogni sistema totalizzante predeterminato. I nuovi spazi dell’abitare, costruiti sui resti esistenziali della guerra, non celebrano la distruzione di un ordine stabilito, né lo simboleggiano o commemorano. Piuttosto accettano con orgoglio ciò che è stato sofferto e perso, ma anche ciò che di nuovo ne è venuto. Costruiscono sulla forma sfrangiata del vecchio ordine una nuova categoria di ordine naturale, all’interno del quale si percepisce tutto il suo potenziale, dove è possibile riconoscere la propria fragilità e i propri fallimenti, affrontando la necessità di reinventare questi spazi come se non fossero mai stati realizzati, riuscendo ad aggiornarsi e rivitalizzarsi continuamente. Vi è impegno etico e morale in una esistenza simile, e quindi una base per la comunità.