Carta Joss e metaverso
L’aldilà laico della Silicon Valley viene da una metafora orientale
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NFT: parola dell’anno per il dizionario Collins, gonfiata dall’hype come ogni fenomeno mediatico del XXI secolo, che stanca ancor prima di affermarsi sul mercato.
Mentre i ragazzini occidentali sognano di fare i big money con le cripto, unica àncora di salvezza economica rimasta in mancanza di progetti più solidi su cui le generazioni precedenti hanno potuto far affidamento, Zuckerberg a ottobre 2021 sgancia la bomba: Facebook diventa Meta, e la stampa generalista si affretta ad allinearsi alla narrazione. Con grande confusione dei cronisti, chiamati a diventare esperti nel giro di un paio di notti di un fenomeno stratificatosi tecnologicamente nell’arco di decenni, e quindi con ancor maggiore confusione del pubblico.
Come per tutti i fenomeni di cui si sa poco, la narrazione ai tempi dei social media si spacca in due: da una parte scenari di catastrofi di deriva tecno-autoritaria e hikikomori che spuntano ad ogni angolo della strada; dall’altra visioni siliconvalliche di democrazia dal basso, empowerment degli artisti, la chance democratica e inclusiva che il mondo stava aspettando. Faremo i colloqui nel Metaverso! Le minoranze etniche avranno le stesse chance del nipote dei Kennedy! Le donne non saranno più penalizzate! Ma che dico, non avrà più senso parlare di generi!
La metafora più semplice che abbiamo mancato per provare davvero a capirci qualcosa viene però da Oriente, da una tradizione taoista millenaria (le prime evidenze della pratica risalgono al 1.000 a.C.) che è visibile tutt’oggi anche su piazze accelerazioniste come Hong Kong e Singapore, ed è quella della carta Joss.
La carta Joss è un concetto talmente sconosciuto al pubblico italiano che non esiste neanche una traduzione, né una voce del termine nella nostra lingua su Wikipedia.
Viene dal cinese金 纸, la cui versione pinyin, in caratteri occidentali, è jīnzhǐ e letteralmente significa quindi “carta d’oro”, ma altri modi di riferirsi al fenomeno sono “carta del mondo di sotto”, o “soldi oscuri”. Di fatto, sono banconote o oggetti di artigianato e più commerciali che tradizionalmente si presentavano sotto forma di origami, ma oggi si trovano ormai in numerosissimi negozi dedicati come stampe, e che devono accompagnare il viaggio dei defunti nell’aldilà tramite un autodafé che si consuma al momento del funerale del caro estinto.
Il rito crematorio permetterebbe quindi al tragicamente scomparso di portare con sé nella seconda vita le sue ricchezze materiali, che non necessariamente devono essere davvero possedute al momento del passaggio a miglior vita: tra le bancarelle e i negozi che stupiscono di più l’occhio del viaggiatore occidentale in viaggio nella regione cantonese si trovano infatti borse Louis Vuitton, Lamborghini, yacht, Harley Davidson, Rolex, perfino direttamente carte di credito, tutte rigorosamente in versione cartacea, oltre a banconote stile Monopoli con un numero di zeri molto elevato – e coniate nella regione del Guangdong da una vagamente inquietante “Hell Bank”, la banca dell’inferno. Tramite il falò, spesso improvvisato anche sui marciapiedi in diverse città cinesi, ci si assicura che il defunto potrò utilizzare i beni nelle autostrade e nei mari dell’Oltremondo.
Il fenomeno intreccia in quella maniera pragmatica tipicamente orientale aspetti mistici ad altri più meramente economici difficilmente trascurabili, se è vero che nella sola Taiwan le entrate annuali dei templi ricevute dalla combustione della carta Joss ammontano a circa mezzo miliardo di dollari l’anno.
Ora, una volta esposti a questa tradizione, è difficile non pensare ai parallelismi che regala all’attuale scenario tecnologico costellato di NFT e Metaversi, e che non a caso guarda sempre più a Oriente anche come modello di business, laddove WeChat rimane l’emblema della tecnologia totalizzante che i veri startupper sognano, sotto forma di killer application.
Così, come tramite il rituale della combustione le anime defunte possono portarsi nell’altro mondo i propri possedimenti terreni, reali o inventati che siano, allo stesso modo indossando i propri Oculus si può accedere a un mondo altro dove è possibile lanciare i propri possedimenti e vestire quindi il proprio avatar con le stesse sneakers che si indossano nella vita reale, guidare auto che offline costerebbero l’equivalente di qualche anno di RAL, oppure ancora arredare di opere di digital art le pareti del proprio palazzo costruito sulla versione virtuale di via Montenapoleone su OVR, il metaverso dove si possono comprare lotti immobiliari di tutto il mondo, diviso in un milione e seicentomila esagoni.
Descritto così, il metaverso può mostrare anche ai più scettici il suo lato più appealing, perché il mondo dall’altra parte può risultare davvero migliorativo per un numero crescente di classi sociali e, soprattutto, in maniera trasversale per un’intera generazione che già faceva una discreta fatica a relazionarsi col mondo che la circondava prima dell’avvento del Covid, e che ora è del tutto dissociata in una postmodernità che da liquida si sta facendo sempre più velocemente gassosa. Il tutto, col vantaggio che si può tornare indietro non dovendo sottoporsi al complesso processo di ricomposizione delle proprie ceneri, ma semplicemente col salvifico gesto di togliersi la mascherina – superiore, questa volta.
Puff, offline again.
D’altronde, la difficoltà stessa a coniare metafore sensate per descrivere il nostro futuro – che sempre più spesso scolora in un imminentissimo presente, altrettanto spesso dipinto come distopico – è anch’essa una rappresentazione di una mente collettiva sempre meno lucida, e sopraffatta da avanzamenti tecnologici di cui fatichiamo a comprendere appieno la portata. Laddove prima questo vuoto era sistematicamente colmato dalle certezze irrazionali della religione, ora non ci rimane che affidarci alla sua versione laica, in cui la speranza di una vita migliore e più giusta è delegata nelle mani degli imprenditori in t-shirt di Palo Alto e dintorni. L’aldilà agnostico della Silicon Valley è molto più accessibile (gli Oculus partono da 300€), e forse persino più democratico, se ripensiamo all’epoca delle Indulgenze, rispetto a quello delle religioni monoteistiche tradizionali, e anche delle filosofie confuciane e i loro derivati.
Quest’esercizio di immaginare metafore nuove, transnazionali e transculturali, è in fondo quanto di più autenticamente resistente l’attuale sistema capitalistico abbia saputo inventarsi, nonché necessario a superare l’ennesima dicotomia che affligge l’Era della Iperdivisività: quella, apparentemente davvero inconciliabile ed esacerbata, tra la rigida comunità anti-STEM e quella, altrettanto snob e supponente, che reputa qualsiasi laurea umanistica come la principale causa di allargamento del grande parcheggio dei disoccupati.
Perché se è vero che la nostra percezione di sé deriva dalla narrazione che ci raccontiamo quotidianamente per dare un senso compiuto a quest’accozzaglia di atomi che ci ostiniamo a chiamare io, è altrettanto vero che l’efficacia di questa narrazione deriva in gran parte dalla qualità delle allegorie che usiamo per descriverla. Ampliarne la portata può giovare gravemente alla nostra salute mentale. Qualcosa che risulta difficile da portarsi dietro nel metaverso. E pure nell’aldilà.