Modernità ed entropia − Parte 2
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La nozione di entropia, data la sua natura stratificata, contraddittoria e polisemica, è concettualmente difficile da inquadrare (Elkana, Ben-Menahem). Essa attraversa infatti i campi della termodinamica, della statistica, della teoria dell’informazione e della fisica quantistica. Da un punto di vista molto astratto, per entropia si intende una misura delle capacità di un sistema di subire trasformazioni spontanee. Originariamente, il significato di entropia è legato allo studio teorico delle macchine a vapore condotto da Sadi Carnot nei primi anni del XIX secolo (Rovelli). Tuttavia, Carnot concepisce l’entropia secondo uno schema idraulico: si tratterebbe di un fluido di calore che si sposta da un corpo a temperatura alta a un altro a temperatura più bassa (Angrist). La spiegazione di Carnot è scorretta, ma coglie un punto importante: in natura c’è una direzione dei fenomeni che concernono cambiamenti di temperatura. La ragione per la quale il fisico francese interpreta il calore come un fluido è prettamente storica. Egli ha in mente un problema tecnico ed economico: rendere più efficienti le macchine a vapore.
Carnot voleva capire se un modello [più efficiente di motore] potesse eliminare tutte le perdite del motore a vapore. Immaginò quindi un motore ideale, privo di perdite, completamente isolato e senza attrito. Poi immaginò innescare un ciclo completo […] In un ciclo ideale l’acqua viene riscaldata fino a vaporizzarsi, e la pressione del vapore costringe il pistone del motore a muoversi; il ciclo si completa quando il vapore espanso si raffredda e si condensa nuovamente in acqua, permettendo al pistone di tornare alla posizione di partenza. Pensando ai passaggi di questo ciclo ideale, Carnot si rese conto che una conversione completa del calore in lavoro era impossibile perché si sarebbe verificata una perdita inevitabile di energia termica nel processo di raffreddamento e condensazione (Stanley Angrist, Perpetual motion machines).
L’esempio di Carnot è influenzato dagli strumenti tecnici che aveva sotto gli occhi: motori a vapore, mulini ad acqua, mulini a vento, pompe idrauliche. Fra XVIII e XIX secolo si progettavano motori ad acqua in grado di funzionare al contrario, ovvero come pompe idrauliche, e, tuttavia, seguendo l’esperimento di Carnot, per essere completamente reversibili, questi meccanismi avrebbero dovuto permette un’inversione spontanea.
L’esperimento mentale di Carnot introduce una nuova prova contro la possibilità di costruire un perpetuum mobile. Solamente, un motore perpetuo del primo tipo produce energia eccedente rispetto all’energia consumata, mentre un motore del secondo tipo, ovvero un motore che funziona come il ciclo ideale di Carnot, è completamente reversibile. Mentre il primo caso è inficiato da attriti e dalla trasformazione di energia in calore, nel secondo entra in gioco il tempo: nel ciclo ideale di Carnot l’inversione del meccanismo comporta che ci sia un trasferimento di calore da corpi freddi a corpi caldi, e questo è impossibile.
Il legame fra tempo e calore è dunque profondo: ogni volta che si manifesta una differenza fra passato e futuro, c’è di mezzo del calore. In tutti i fenomeni che diventano assurdi se proiettati all’indietro, c’è qualcosa che si scalda. Se guardo un film che mostra una palla che rotola, non so dire se il film è proiettato giusto o all’indietro. Ma se nel film la palla rallenta e si ferma, vedo che il film è giusto, perché proiettato al contrario mostrerebbe avvenimenti implausibili: una palla che si mette in moto da sola (Carlo Rovelli, L’ordine del tempo).
Si noti che il modo in cui Mauro Barbosa De Almeida interpreta l’omologia lévi-straussiana sposta il significato iniziale della metafora. L’antropologo svizzero, infatti, usa il concetto di entropia in senso prettamente termodinamico, in relazione a lavoro, energia e meccanismi che passano da uno stato all’altro all’interno di un ciclo. Questo è il senso di Carnot, Joule e Clausius. In particolare, l’idea di un ciclo che funziona a temperatura “zero assoluto” indica esattamente questo: una specie di orologio perfetto che seguita a scandire ore, minuti e secondi, e che, dopo dodici ore, ritorna al suo stato iniziale.
Già nella metafora di Lévi-Strauss c’è qualcosa che non torna, o, per essere più precisi, c’è un presupposto non dichiarato. A uno stato di zero assoluto non ci sarebbe nessun ciclo possibile, ma sono un infinto e statico presente; inoltre, per poter mantenere in funzione l’orologio sarebbe osservabile, in ogni caso, un aumento di entropia. Quello che Lévi-Strauss implica è che vi sia una relazione fra ciclicità e assenza di storia, intendendo per storia un processo orientato ma non lineare.
[…] nei modelli [di società elaborati dagli antropologi] il tempo non è “immobile” in nessun senso in cui possa essere considerato come non “immobile” in altri contesti. Ciò che sembra essere implicato nella definizione di tempo “immobile” […] e questo si applica all’immobilità del tempo sincronico di Lévi-Strauss – è la resistenza di qualche processo o istituzione a un cambiamento sistemico. Un modello meccanico e ciclico [di società] comprende un insieme finito eventi identificabili che non vengono aggiunti o sottratti, come risultato del postulato verificarsi di un evento o di un sottoinsieme di eventi previsti nel modello. Nel tempo lineare una sequenza ciclica di eventi è ripetitiva e non ramificata. Ma questa caratteristica non è atemporale; si tratta solo di una stretta restrizione dell’ordine e dell’identità dei tipi di eventi che rientrano nell’ambito del modello (Alfred Gell, The anthropology of time).
La confusione fra immobilità e ciclicità, abbiamo visto, rivela qualcosa più sui pregiudizi e i lapsus di Lévi-Strauss che sull’utilità ermeneutica delle sue metafore e dei suoi modelli. Tuttavia, così come il lessico e le interpretazioni dell’antropologo svizzero sono influenzati dall’adozione di un paradigma cibernetico, allo stesso modo si potrebbe osservare che, storicamente, nel corso della rivoluzione industriale inglese, i termini tecnici della termodinamica e la scoperta delle sue leggi fisiche influenzarono e stimolarono anche la riflessione più prettamente filosofica. In particolare, nozioni come “lavoro”, “energia” e “calore” acquisiscono uno statuto rigoroso nelle opere di Carnot, von Helmholtz, Kelvin e Clausius.
La termodinamica emerse da un calderone di scambi fra scienza e industria come campo centrale della conoscenza. Le sue teorie affermavano che l’energia totale di un sistema isolato è costante e che l’energia può essere trasformata da una forma all’altra ma non può essere né creata né distrutta. La teoria dell’energia, così come si è sviluppata in queste decadi cruciali [1830-1850] non scese dal cielo, ma affiorò […] della produzione industriale (Brent Ryan Bellamy, Jeff Diamanti, Phantasmagorias of Energy).
Quando Marx utilizza il termine Arbeitskraft (forza-lavoro) mutuandolo probabilmente da von Helmholtz, condensa nello stesso concetto: il dispendio calorico del lavoratore, l’energia termica prodotta dalle macchine a vapore, e il lavoro da un punto di vista economico-politico. In questo senso, il modo di produzione capitalistico viene concepito come un modello altamente astratto di estrazione, trasformazione e accumulazione delle fonti di energia (chimiche, meccaniche, muscolari, eccetera).
Le innovazioni energetiche [apportate] dalle macchine ad acqua e a vapore ridussero la quantità di tempo di lavoro richiesto da un lavoratore di abilità media per produrre una merce. L’influenza delle macchine ad acqua e a carbone nel luogo di produzione [trasformò] l’intensità e il valore del lavoro. L’ambiente nel quale il lavoro veniva organizzato e sostenuto era sottoposto a controlli costanti, mentre i capitalisti scavavano sempre più a fondo nella terra per costruire corsi d’acqua per i mulini e cercare nuove fonti di carbone. In sostanza, il nuovo regime energetico generò una trasformazione radicale nel carattere del rapporto lavoro-capitale (Brent Ryan Bellamy, Jeff Diamanti, Phantasmagorias of Energy).
Prima della Rivoluzione Industriale la sussistenza di homo sapiens era principalmente legata a due cicli: quello della crescita delle piante e le meccaniche celesti di rotazione e rivoluzione terrestre che generano l’alternanza stagionale e la polarità giorno-notte. In ultima analisi, l’energia solare, catturata e trasformata dalle piante nel processo di fotosintesi, costituisce il fondamento di quella che Bataille chiamerà poeticamente “economia generale” dello spreco, il dono primario che il sole rilascia senza chiedere nulla in cambio.
L’ammontare di energia racchiusa in tutto il carburante fossile esistente sulla terra è irrilevante al confronto di quello che il Sole dispensa ogni giorno gratuitamente. Solo una minuscola proporzione dell’energia solare raggiunge la terra, e tuttavia essa ammonta a 3.766.800 exajoule di energia ogni anno (il joule è un’unità di misura dell’energia nel sistema metrico, all’incirca l’ammontare di energia che si spende per sollevare una mela verticalmente fino a un metro; un exajoule è un miliardo di miliardi di joule – un sacco di mele). L’insieme della vegetazione di tutto il mondo cattura soltanto tremila circa degli exajoule solari, attraverso il processo della fotosintesi. Tutte le attività umane e industrie messe insieme consumano circa cinquecento exajoule l’anno, equivalenti all’ammontare di energia che la terra riceve dal Sole in appena novanta minuti (Yuval Noah Harari, Da animali a dèi).
La quantità di energia utilizzata dalla nostra specie fino alla Rivoluzione Industriale venne prodotta principalmente dalla forza-lavoro umana, dall’impiego di animali, da fonti di energia rinnovabili (es. acqua e vento) e da macchine semplici che potevano facilitare il lavoro, moltiplicare o concentrare l’uso collettivo delle forze, ma, sostanzialmente questi metodi non apportarono cambiamenti radicali. Anche il carbone è generato dell’energia solare (Mitchell) in un processo lunghissimo (dai 150 ai 350 milioni di anni) di deposito e trasformazione degli organismi marini e vegetali nelle in riserve di combustibili fossili. Sebbene le conoscenze necessarie per utilizzare l’energia cinetica sprigionata dalla combustione fossero già note nel nono secolo d.C. in Cina, il loro impiego si riduceva alla costruzione di fuochi d’artificio e, successivamente, di fucili e bombe che sfruttavano la polvere da sparo. Una delle motivazioni storiche che influì sull’invenzione e successiva diffusione delle macchine a vapore nell’Inghilterra del XIX secolo è stata la scarsità di legna. Più precisamente, si potrebbe affermare che non fu la scarsità assoluta di legna a influenzare l’adozione del carbone (Sieferle), ma la difficoltà di trasportarlo in centri urbani densamente popolati, assieme alla presenza di territori ricchi di giacimenti in Galles e Inghilterra settentrionale e centrale.
Il contesto energetico della società cambiò con la transizione all’uso del carbone e questo ebbe inoltre ripercussioni economiche ed ecologiche […] il sistema dell’energia fossile diede inizio all’emancipazione dalle restrizioni imposte dal sistema agrario ad energia solare. Il sistema agrario era legato al territorio da cui traeva la sua base energetica. L’energia fossile liberò l’umanità dai suoi legami con l’estensione del territorio. Già nei primi decenni del XIX secolo La Gran Bretagna disponeva di una quantità di energia che equivalente a un’area ipotetica delle dimensioni dell’intero paese. Ma con questo sviluppo il principio territoriale dell’energia solare si infranse (Peter Sieferle, The subterranean forest).
Inizialmente, l’utilizzo di motori a vapore fu legato alla necessità di drenare l’acqua dai giacimenti di carbone – era un sistema altamente inefficace, ma poteva sostituire il lavoro di molti animali e funzionava direttamente con le materie prime che aiutava ad estrarre. Ben presto, con i perfezionamenti apportati da James Watt, si passò da una pompa a vapore (altamente inefficiente) a un meccanismo dalla portata più universale. Per trasportare il carbone, animali, merci ed esseri umani vennero adottati dei motori a vapore, e questo rese possibile la costruzione delle prime reti ferroviarie. Questi motori, inoltre, potevano essere applicati anche all’industria tessile, automatizzando una parte del lavoro di filatura, e nell’industria siderurgica, attraverso la sostituzione del carbone vegetale col carbone fossile nel processo di estrazione del ferro.
[…] la base tecnica ed economica del nuovo sistema energetico non fu particolarmente spettacolare. Questa può essere la ragione per cui le conseguenze non sono state sistematicamente notate. Tuttavia, esse consistevano in una drammatica alterazione del quadro energetico dell’economia: all’interno del sistema energetico ci fu una fondamentale mobilitazione dei flussi di materiali […] L’espansione dell’energia ha trascinato con sé altri materiali. Sono stati mobilitati dai loro depositi, trasformati, concentrati e infine distribuiti su grandi aree. La sovrabbondanza di energia fossile rese possibile una frenetica circolazione di metalli. I composti metallici disponibili nei minerali furono prima ridotti e successivamente si crearono nuovi legami chimici. Questo processo è la base metabolica della nuova scala del problema dell’inquinamento sorto durante l’industrializzazione. Queste sostanze non solo vennero mobilitate e distribuite in tutto il globo, ma [vennero accumulate] in concentrazioni tossiche impreviste. Non solo l’energia fossile rese possibile l’accesso alle risorse materiali, ma creò un enorme domanda di pozzi di assorbimento nei quali depositare queste risorse dopo l’uso (Peter Sieferle, The subterranean forest).
Le conseguenze della Rivoluzione Industriale furono molteplici, ma per quello che ci concerne, due elementi spiccano sugli altri: la relazione fra l’estrazione di combustibili fossili e l’organizzazione del lavoro e le conseguenze ecologiche dell’impiego di queste nuove risorse energetiche. La concentrazione di interessi economici e industriali legata all’estrazione del carbone fossile creò un’inedita situazione lavorativa: l’accentramento e la politicizzazione di un numero elevato di minatori verso la fine del XIX secolo in Inghilterra, Germania e negli Stati Uniti. Il potere di contrattazione e l’efficacia dei loro scioperi, a differenza di altre professioni, derivava dalla precisa congiuntura economica-industriale nella quale erano inseriti (Mitchell): essi godevano di una notevole autonomia professionale che gli premise di rifiutare forme estreme di meccanizzazione, richieste di operazioni troppo pericolose, salari bassi e allungamento delle giornate lavorative. I minatori si trovavano quindi al centro di un crocevia fondamentale dal quale dipendevano molti settori industriali: siderurgia, trasporti, settori tessili, etc. La comprensione e lo sfruttamento di questa nuova fonte di energia non ebbero solo esiti positivi, ma lasciarono un’impronta duratura nell’ecosistema globale. Nel dibattito geologico-climatologico sulla datazione dell’Antropocene, la Rivoluzione Industriale, ed in particolare l’introduzione del motore Watt, sono state selezionate come date per designare l’inizio di un’epoca nella quale l’azione di modifica della nostra specie ha alterato in modo irreversibile (o quasi) alcuni parametri del sistema climatico del nostro pianeta. È interessante notare che, sebbene il dibattito sulla datazione sia ancora lontano da una risoluzione condivisa dalla comunità scientifica, molte datazioni proposte sono associate a cambiamenti radicali nell’impiego di nuove risorse energetiche: la Rivoluzione Agricola del Neolitico, la detonazione della bomba atomica nel 1945, gli effetti dell’emissione dei clorofluorocarburi sul diradamento dello strato di ozono sopra l’Antartide.
Da un certo punto di vista, il discorso ecologico sui limiti d’innalzamento della temperatura globale è simile alle preoccupazioni malthusiane e ai dibattiti sulla caduta del saggio di profitto del XIX secolo. In entrambe i casi si tratta di identificare gli elementi pertinenti in una dialettica fra limite ed illimitato. Durante la Rivoluzione Industriale i limiti alla crescita erano situati nella natura scarsa e finita di terreni agricoli da sfruttare. La curva che descriveva il tasso di crescita della popolazione era più ripida di quella che descriveva lo sfruttamento delle risorse ambientali. Marx introduce un limite diverso, quello del rapporto fra guadagno e innovazione tecnologica – anche in questo caso viene fatta una previsione catastrofica: il modo di produzione capitalista entrerà in una crisi dalla quale non potrà rialzarsi perché non sarà più possibile estrarre plusvalore dal lavoro vivo della specie umana. Di fronte al cambiamento climatico attuale, c’è un consenso sul fatto che sia necessario rispettare i cosiddetti planetary boundaries (aumento della temperatura globale, concentrazione di anidride carbonica, acidificazione degli oceani, tasso di biodiversità, utilizzo dell’acqua, etc.), meno indisputabili sono le soluzioni e i modelli predittivi che permetterebbero di trovare delle soluzioni concrete al problema.
La dicotomia fra premodernità e modernità tratteggiata da Lévi-Strauss, assunta come differenza fra meccanismi ciclici ed entropici, sembra rappresentare qualcosa di più radicato in un’immagine simbolica di progresso che una semplice omologia inventata dall’antropologo svizzero. Si prenda, ad esempio, una ricostruzione della storia globale della nostra specie che ha riscosso un particolare successo editoriale, Da animali a dèi dello storico israeliano Yuval Noah Harari. Il suo modello, inevitabilmente riduzionista, limita a quattro elementi la causa del successo della modernità europea: capitalismo, metodo scientifico, ammissione dell’ignoranza e fede nel futuro. Questi fattori devono essere connessi in un ciclo di retroazione positiva per poter innescare un processo globale di crescita rapida.
Il problema, in passato, non era che il credito non si conoscesse. Era che si tendeva a non estendere un forte credito perché non si aveva fiducia che il futuro potesse essere migliore del presente. Si era portati a pensare che i tempi passati erano stati migliori del presente, e che in futuro sarebbe andata ancora peggio o, al massimo, che sarebbe andata allo stesso modo del presente. In termini economici la gente riteneva che l’ammontare totale della ricchezza fosse limitato, se non decrescente. Si considerava quindi un cattivo calcolo presumere di poter produrre – a livello personale, del regno o del mondo intero – maggiore ricchezza sulla durata di dieci anni. Gli affari parevano una specie di gioco a somma zero […] Nel corso degli ultimi cinquecento anni, l’idea di progresso convinse la gente a riporre sempre più fiducia nel futuro. Questa fiducia fu l’origine del credito; il credito portò vero sviluppo economico, e lo sviluppo economico rafforzò la fiducia nel futuro, favorendo ulteriore credito. Non accadde dalla sera alla mattina – l’economia ebbe un andamento più da montagne russe che da mongolfiera. Ma sui tempi lunghi, una volta appianati i sobbalzi, la direzione generale fu inequivocabile. Oggi nel mondo si applica così tanto credito che governi, società commerciali e individui privati ottengono facilmente grandi prestiti a lungo termine e a basso interesse che eccedono enormemente gli introiti del presente. (Yuval Noah Harari, Da animali a dèi).
La parola chiave della narrazione di Harari è “credito”, trust, che ha vari significati: da un punto di vista economico, indica la credenza nell’efficacia futura degli investimenti presenti, da un punto di vista psicologico e sociale, invece, è la fiducia nel miglioramento delle condizioni di esistenza degli individui. Harari afferma anche che questa credenza sia, di fatto, un presupposto religioso, una sorta di scommessa sull’efficacia delle nostre conoscenze e delle nostre tecniche nella risoluzione di problemi globali (malattie, violenza sociale, infelicità, povertà, inquinamento, etc.). A differenza delle credenze religiose premoderne, la fiducia nel futuro non somministra delle soluzioni dogmatiche, non è un’escatologia, ma una teodicea. Anche lo storico post-coloniale Dipesh Chakrabarty, che certamente non condivide i presupposti capitalistici e liberali di Harari, è costretto ad ammettere che la Rivoluzione Industriale ha reso possibili le basi per una diffusione della democrazia e per il miglioramento materiale delle condizioni di esistenza di tutta la specie (sia degli individui privilegiati che di quelli svantaggiati).
[…] io, che mi ero sempre schierato a favore di una varietà di diritti per gli esseri umani, che valorizzavo l’idea di “libertà” nelle sue diverse connotazioni, che sognavo un futuro di emancipazione per gli umani, il cui significato storico era intriso di questa idea di libertà, sono rimasto scioccato nello scoprire che ciò che dava la sua materialità a questo tema della “libertà” era l’accesso a una energia abbondante e a buon mercato! va da sé che la maggior parte di questa energia proviene dai combustibili fossili, prima dal carbone e poi dal petrolio e dal gas. Ma non era solo questo. Senza l’uso dei combustibili fossili, sarebbe stato difficile per gli esseri umani, anche per i più poveri, vivere più a lungo di quanto era possibile in passato. I combustibili fossili, essendo utilizzati nei fertilizzanti, nelle medicine, nell’irrigazione, sono anche responsabili dell’enorme aumento della popolazione umana negli ultimi cent’anni […] Questi stessi combustibili fossili che ci hanno dato le nostre “libertà” moderne mettono oggi in pericolo la nostra “civiltà” e ci minacciano della più grave crisi ecologica che abbiamo conosciuto: riscaldamento globale, innalzamento del livello del mare, acidificazione degli oceani che porta alla perdita della biodiversità marina e alla possibilità di una sesta grande estinzione delle specie, con terribili conseguenze per gli esseri umani. Questa non è un’ordinaria crisi ambientale, come può esserlo l’inquinamento urbano con le microparticelle, i cui effetti possono essere attenuati con qualche innovazione tecnologica ed economica. Il cambiamento climatico antropogenico è stato messo in moto dal nostro stesso modo di “sviluppo”, in quanto fondato sui combustibili fossili (Dipesh Chakrabarty, La sfida del cambiamento climatico).
L’ultimo paragrafo del passo di Chakrabarty è indicativo di quanto abbiamo visto precedentemente: perché lo storico utilizza le espressioni “terribili conseguenze per gli esseri umani” e “questa non è un’ordinaria crisi ambientale?”. Boyer e Petersen direbbero: si tratta di una visione “a somma zero” dell’economia, la quale non tiene in considerazione gli effetti positivi dell’utilizzo dei combustibili fossili. Una strategia retorica utilizzata dai cosiddetti “negazionisti climatici” – coloro che tendono per ragioni etiche, interessi personali, o seguendo modelli economici e statistici, è quella di attaccare l’idea che l’Antropocene abbia qualcosa a che vedere con la rivoluzione industriale e il capitalismo. O, in altri casi, a produrre dei modelli meno catastrofici dei suoi esiti. Il giornalista e think tanker Michael Shellenberger, nel suo Apocalypse never riprende la vecchia argomentazione malthusiana, questa volta applicandola alle politiche ecologiche democratiche e radicali che invocano, secondo le policies dell’IPCC, una transizione netta e veloce a fonti energetiche rinnovabili o a zero emissioni di anidride carbonica.
I malthusiani modificarono significativamente Malthus. Mentre Malthus avvertiva che la sovrappopolazione avrebbe portato alla scarsità di cibo, i malthusiani degli anni ’60 e ’70 avvertivano che l’abbondanza di energia avrebbe portato alla sovrappopolazione, alla distruzione ambientale e al collasso della società. (Michael Shellenberger, Apocalypse never).
Contrapporre questi due modelli è un esercizio interessante ma sterile, perché si troveranno sempre delle argomentazioni in favore di quella particolare tecnologia o di quel particolare modello in grado di salvare o distruggere il pianeta. Dal nostro punto di vista, l’aspetto interessante risiede nella natura duplicemente entropica della Modernità. Ed è questo un tema che è stato espresso in maniera chiara ed evidente nelle prime formulazioni di Nick Land all’interno della CRRU.
La modernità è progressiva, innovativa, irreversibile ed espansiva. Essa traccia una linea diretta che la conduce fuori dal ciclico impulso stagionale dell’ecologia premoderna a un futuro stato di padronanza tecnica e di illuminismo sociale. L’imperativo modernista di “rendere tutto nuovo” rifiuta apparentemente la chiusura e l’isolamento dallo shock espressi dalla ciclicità, eppure, come Land si affretta a sottolineare, la reintroduce surrettiziamente con altri mezzi […] facendo affidamento sul ciclo come unità di base per l’analisi storica ed economica, mantenendo le disposizioni calendariali arcaiche e tradendo la sua prevalenza nell’immaginazione popolare attraverso l’emergere del ciclo temporale come forma simbolica della fantascienza nel Ventesimo secolo […] Ciò che l’accelerazionismo landiano [rappresenta è] il riconoscimento che la vera forma della novità non è lineare ma spirodinamica […] Land legge la spirale come una cifra per il feedback positivo e, incaricato del compito di diagrammare la modernità, localizza il suo motore principale nel circuito intensificante D-M-D’ del capitalismo (Amy Ireland, The Poememenon: Form as Occult Technology).
Per Nick Land la modernità è un sistema allo stesso tempo entropico e non-lineare, che distingue fra cicli di retroazione a corto raggio – piccole correzioni, riforme, modifiche situate di problemi sociali – e retroazione ad ampio raggio, ovvero, veri e propri tentativi di fuga accelerata dal proprio tempo, dalle strettoie etiche, morali, statali e tecnologiche che lo vincolano a terra, incatenandolo al suo presente.
Questa fede nella radicale alterità del futuro, nella sua imminente venuta, nei frutti del progresso, è, secondo Reinhard Koselleck, autore chiave per la storia concettuale, un portato storico della secolarizzazione del cristianesimo: si tratta della trasposizione del tempo dell’éschaton con il futuro del socialismo utopico e della nascente fantascienza saintsimoniana o verniana.
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