Panarchia
Alla vigilia della prevendita secondo volume di Libertaria (partirà entro la fine di luglio), presentiamo oggi uno dei saggi cruciali dell’antologia, curata da Gian Piero de Bellis, Panarchia!
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I – Prefazione
Un contemporaneo ha detto: «Se avessi le mani ricolme di verità, mi guarderei bene dall’aprirle». Questa frase è forse di un saggio, ma esprime di certo il pensiero di un egoista.
Un altro ha scritto: «Le verità che si ama ascoltare di meno sono quelle che uno dovrebbe a maggior ragione diffondere».
Ecco due pensatori che non sono prossimi ad intendersi. Personalmente sarei abbastanza d’accordo con il secondo, ma, nella pratica, il suo punto di vista presenta alcuni inconvenienti.
Se consulto la saggezza dei popoli, scopro che «non è bene dire tutta la verità».
Ma allora, come operare delle distinzioni?
D’altra parte, il Vangelo ci insegna «che non bisogna tenere la fiaccola sotto il moggio».
Eccomi allora molto perplesso. Il fatto è che ho una idea nuova; almeno la reputo tale, e qualcosa mi dice che è mio dovere diffonderla. Nonostante ciò, al momento di aprire la mano, provo una certa inquietudine: qual è l’inventore che non è stato un po’ perseguitato?
Quanto all’invenzione, una volta affidata alla pagina stampata, farà il suo cammino come meglio potrà; la considero emancipata. La mia preoccupazione si concentra sull’autore. Verrà lui assolto dall’accusa di aver avuto un’idea originale?
Un antico, che salvò Atene e la Grecia, disse ad un bruto che, in una discussione, trovandosi a corto di argomenti, aveva alzato il bastone su di lui: «Colpisci, ma ascolta».
L’antichità abbonda di grandi esempi. A imitazione di Temistocle, io presento la mia idea e dico alle persone: leggetemi fino alla fine, mi lapiderete in seguito, se lo riterrete opportuno.
Al tempo stesso, la mia intenzione è quella di non essere affatto lapidato. Il bruto di cui parlo è morto a Sparta ventiquattro secoli fa, e ognuno conosce gli immensi progressi realizzati dall’umanità in duemilaquattrocento anni. Ai nostri giorni, le idee hanno tutto il permesso di essere espresse, e se, di tanto in tanto, si bastona ancora un inventore, non è più come tale, ma in quanto agitatore e utopista.
Rassicurato da queste riflessioni entro risolutamente in argomento.
II
Signori, io sono amico di tutti quanti!
Il servitore Sosie, nell’Amphitryon di Molière
Ho una passione per l’economia politica e vorrei che tutti, come me, l’avessero in così grande stima. Questa scienza, sorta da poco e già la più importante tra tutte, ha ancora molte cose da dire. Presto o tardi, e io spero che ciò avvenga ben presto, essa governerà l’universo. Ho buone ragioni per affermarlo, perché è negli scritti degli economisti che ho attinto il principio di cui propongo una ulteriore applicazione, di ben più vasta portata e non meno logica di tutte le altre.
Per cominciare, citiamo alcuni aforismi, la cui attinenza all’argomento preparerà il lettore a quanto segue.
«La libertà e la proprietà sono strettamente collegate; l’una favorisce la distribuzione delle ricchezze, l’altra insegna a produrle».
«Il valore delle ricchezze dipende dall’uso che se ne fa».
«Il prezzo dei servizi si stabilisce in ragione diretta della domanda e inversa dell’offerta».
«La divisione del lavoro moltiplica le ricchezze».
«La libertà genera la concorrenza che, a sua volta, dà vita al progresso».
(Ch. de Brouckère, Principes généraux d’économie politique)
Dunque, libera concorrenza, innanzitutto tra gli individui, poi tra nazione e nazione. Libertà di inventare, di lavorare, di scambiare, di vendere, di acquistare. Libertà di chiedere un compenso per i prodotti del proprio lavoro. Nessun intervento dello Stato al di fuori del proprio campo particolare: Laissez faire, laissez passer.
Ecco, in poche righe, le basi dell’economia politica, il succo di una scienza senza la quale non vi è che cattiva amministrazione e governi deplorevoli. Si può andare ancora più oltre e, nella maggior parte dei casi, ridurre questa grande scienza al suo motto ultimo: Laissez faire, laissez passer.
Basandomi su queste massime affermo: Nel campo della scienza non vi sono mezze verità; non esistono verità che, vere sotto un aspetto, cessano di esserlo sotto un altro. Il disegno dell’universo è di una semplicità meravigliosa, al pari della sua infallibile logica. La legge è dappertutto la stessa, le applicazioni soltanto differiscono. Gli esseri più elevati e i più semplici, a partire dall’essere umano fino agli animali, e ai minerali, presentano degli stretti legami nella struttura, nello sviluppo e nella composizione, e sorprendenti analogie collegano la sfera morale a quella materiale. La vita è una, la materia è una, solo le manifestazioni sono diverse, le combinazioni innumerevoli, le individualità infinite; e nonostante ciò, il disegno generale le comprende tutte. La debolezza del nostro intendere, il difetto radicale della nostra educazione, sono responsabili della diversità dei sistemi e del contrasto delle idee. Tra due opinioni che si contraddicono, ve ne è una vera e una falsa; a meno che non siano false tutte e due, ma tutte e due non possono essere vere. Una verità scientificamente dimostrata non può essere vera qui e falsa altrove, buona, ad esempio, per l’economia sociale e cattiva in politica: questo è il punto a cui volevo arrivare.
La grande legge dell’economia politica, la legge della libera concorrenza, laissez faire, laissez passer, è forse applicabile solo alla regolamentazione degli interessi industriali e commerciali o, più scientificamente, alla produzione e alla circolazione delle ricchezze? La notte dell’economia che essa è venuta a rischiarare, lo stato permanente di agitazione, l’antagonismo violento degli interessi che essa ha pacificato, tutto ciò non domina forse in pari grado nella sfera politica? E il ragionamento analogico non dice forse che il rimedio potrebbe essere lo stesso nei due casi? Laissez faire, laissez passer.
Intendiamoci, però: vi sono qua e là, dei governi liberi quanto lo permette la debolezza degli esseri umani, anche se si è ben lontani dal meglio persino nelle migliori repubbliche. Gli uni dicono: «è proprio perché c’è troppa libertà»; gli altri: «è perché non ce n’è ancora abbastanza».
La verità, è che non vi è la libertà che occorrerebbe; la libertà fondamentale, la libertà di essere liberi o di non esserlo, a propria scelta. Ognuno si fa giudice e sentenzia secondo i propri gusti o i propri bisogni particolari, e dal momento che vi sono, al riguardo, altrettante opinioni che individui, tot homines, tot sensus, vi rendete conto del pasticcio adornato del bel nome di politica. La libertà degli uni è la negazione dei diritti degli altri, e reciprocamente. Il più saggio e il migliore dei governi non funziona mai secondo il pieno e libero accordo di tutti i governati. Vi sono dei partiti, trionfatori o sconfitti, delle maggioranze e delle minoranze in conflitto permanente, e il loro ardore per l’ideale è direttamente proporzionale alla confusione delle loro idee. Gli uni opprimono in nome del diritto, gli altri si ribellano in nome della libertà, per divenire poi, a loro volta, oppressori, quando se ne presenti il caso.
Capisco! dice un lettore. Voi siete uno di quegli utopisti che costruiscono di tutto punto un sistema nel quale vogliono accomodare la società, che lo voglia o no. Non c’è nulla che vada bene, e soltanto la vostra panacea salverà l’umanità. La vostra parola d’ordine è: «Seguite la mia opinione!».
Errore! Io non ho altra opinione che quella di tutti, e non mi differenzio da tutti gli altri che su un solo punto, e cioè che sono dalla parte di tutte le opinioni al tempo stesso, vale a dire di tutte le forme di governo. Di quelle, almeno, che hanno dei sostenitori.
Non mi ci raccapezzo più.
Allora, lasciatemi continuare.
«Si è generalmente inclini ad estendere troppo la portata di una teoria. Se ne deve allora concludere che tutte le proposizioni, il cui insieme compone una teoria, devono essere sempre considerate come false? Qualcuno direbbe che vi è una certa perversione o follia nell’esercizio dell’intelligenza umana. Dichiarare che non si ama la scienza speculativa, che si detestano le teorie, non equivale forse a rinunziare alla facoltà di pensare?».
Queste riflessioni non sono mie; sono di una delle grandi menti della nostra epoca, Jeremy Bentham.
Royer-Collard ha manifestato la stessa idea con una grande forza espressiva: «Pretendere che la teoria non sia buona a nulla e che la pratica sia la sola guida sicura, equivale ad agire senza sapere ciò che si fa e a parlare senza sapere ciò che si dice».
Se non vi è nulla di perfetto in ciò che l’essere umano inventa, vi è almeno la tendenza verso questa perfezione impossibile: è la legge del progresso. Non vi sono altre leggi immutabili se non quelle della natura. Esse costituiscono le fondamenta su cui ogni legislatore deve poggiare, in quanto esse sole hanno la forza di reggere l’edificio sociale; ma l’edificio in sé stesso è opera degli esseri umani. Ogni generazione è come un nuovo inquilino che, prima di prendere possesso, modifica la destinazione d’uso, rintonaca la facciata, aggiunge o sopprime un’ala, seguendo i suoi bisogni particolari. Di quando in quando, una generazione più avventurosa o più imprevidente di quelle passate abbatte l’edificio tutto intero, salvo a dormire sotto il chiarore delle stelle fino a quando esso non viene ricostruito. Quando viene rifatto secondo un nuovo progetto, a seguito di mille privazioni e di sforzi giganteschi, si è tutti confusi nello scoprire che non è molto più confortevole del precedente. Quelli che hanno redatto il progetto, è vero, si sono sistemati in alloggi comodi, ben isolati termicamente, caldi in inverno, freschi in estate, ma gli altri, coloro che non hanno potere di scelta, sono relegati nell’ammezzato, negli scantinati, nelle soffitte. Ecco altrettanti scontenti, guastafeste, alcuni dei quali rimpiangono l’antico edificio, mentre i più coraggiosi sognano già una nuova demolizione. Per alcuni che risultano soddisfatti, innumerevole rimane la massa degli scontenti.
Nonostante tutto vi sono degli individui soddisfatti, prendiamone nota. L’edificio non è senza pecche, tutt’altro, ma ha delle qualità. Perché demolirlo domani, o più tardi, o chissà quando in futuro, posto che continui ad alloggiare confortevolmente abbastanza inquilini da pagare le spese di manutenzione dell’immobile?
Da parte mia, odio i demolitori, al pari dei tiranni. Poniamo caso che voi siate alloggiato nel sottotetto, che il vostro appartamento sia troppo piccolo, o insalubre. Cambiate, non chiedo di meglio. Scegliete altrove, traslocate senza storie, ma, perbacco, non fate saltare la casa una volta partito. Quello che non si adatta più a voi può fare la gioia del vostro vicino. Afferrate il messaggio?
Press’a poco; ma dove volete arrivare? Mai più rivoluzioni, alla buon’ora! Io sono del parere che costano, nove volte su dieci, più di quanto non rendano. Dunque conserveremo il vecchio edificio, ma dove alloggeranno coloro che traslocano?
Dove vorranno; non è affare mio. Ciò che voglio è che a questo riguardo venga lasciata la più totale libertà. Rappresenta la base del mio sistema: laissez faire, laissez passer.
Credo di comprendere: coloro che sono scontenti del loro governo andranno alla ricerca di un altro. Ve ne è di scelta, in effetti, a cominciare dall’impero del Marocco, senza parlare degli altri imperi, fino alla repubblica di San Marino; dalla città di Londra fino alle Pampas americane. È tutta qui la vostra invenzione? Non è affatto nuova, vi avverto.
Non si tratta affatto di emigrare. La patria non è qualcosa che si trasferisce con la suola delle proprie scarpe. Inoltre, un così colossale spostamento è e sarà sempre impraticabile. Tutte le ricchezze del mondo non basterebbero a pagare i costi di un tale trasloco. E poi io non voglio parcheggiare i cittadini in base alle loro opinioni; relegare, ad esempio, i cattolici nelle province fiamminghe e tracciare da Mons a Liège la frontiera del liberalismo. Io desidero che si continui a vivere insieme, là dove uno si trova ad essere, oppure altrove se proprio uno vuole, ma senza discordie, da buoni fratelli, ciascuno professando liberamente le proprie opinioni e sottomesso ai soli poteri che avrà personalmente scelto o accettato.
Non vi seguo più, del tutto.
Non mi stupite affatto. Il mio piano, la mia utopia, non è dunque una anticaglia, come ritenevate poc’anzi, e nonostante ciò, non vi è nulla al mondo di più semplice e di più naturale; ma è noto che, per quanto attiene al governo o alla meccanica, le idee semplici vengono sempre per ultime.
Veniamo ai fatti: nulla di durevole si fonda se non attraverso la libertà. Nulla di ciò che è stato fondato si conserva e funziona utilmente a tutti gli effetti se non attraverso il libero gioco di tutti i suoi elementi attivi. In caso contrario, si ha perdita di energia, usura rapida degli ingranaggi e, in definitiva, rottura e incidenti gravi. Io dunque chiedo per tutti e per ciascuno degli elementi che compongono la società umana, la libertà di aggregarsi secondo le proprie affinità e di non funzionare se non in rapporto alle proprie inclinazioni; in altri termini, il diritto assoluto di scegliere la società politica in cui ognuno vuole vivere e di non dipendere che da quella. Così voi, voi siete repubblicano…
Io! il cielo me ne guardi!
Semplice supposizione. Allora, poniamo che l’edificio monarchico non vi si adatti; l’aria è troppo pesante per i vostri polmoni e il gioco dei vostri organi non gode dell’azione dinamica che la vostra costituzione esige. Nello stato attuale delle idee, voi sareste portato a rovesciare questo edificio, voi e i vostri amici, per costruirne un altro al suo posto. Ma per fare ciò, avete contro tutti i partigiani della monarchia, che sono affezionati al loro monumento e, in genere, l’ostilità di tutti coloro che non condividono le vostre convinzioni. Fate di meglio: radunatevi in assemblea, redigete il vostro programma, formulate il vostro bilancio, aprite delle liste di adesione, contatevi, e se siete in numero sufficiente per sopportarne i costi, fondate la vostra repubblica.
Dove questo? Nelle Pampas?
Non proprio, ma qui, dove siete, senza alcuno spostamento. È necessario a questo riguardo, sono d’accordo, che i monarchici siano consenzienti. Suppongo risolta, per semplificare la mia argomentazione, la questione di principio. Non ignoro affatto, del resto, la difficoltà di passare da ciò che occorre fare a ciò che si vorrebbe e dovrebbe accadere. Io confido semplicemente nella libera diffusione della mia idea, e non intendo imporla a nessuno, ma non vedo nulla che possa respingerla se non il rimanere bloccati dalle vecchie abitudini. Si ignora forse che, dappertutto, governanti e governati hanno una pessima convivenza. Nella società civile si provvede alle convivenze impossibili attraverso la separazione legale o il divorzio. È una istituzione analoga che io intendo proporre nell’ordine politico, e senza il bisogno di circondarla di tanti formalismi o lentezze amministrative, perché, in politica, una prima unione non lascia né tracce fisiche né progenie.
Il mio modo di procedere differisce dai metodi ingiusti e tirannici seguiti fino ai giorni nostri, per il fatto che io esigo che non venga esercitata violenza su alcuno.
Volete voi promuovere uno scisma politico? Voi ne siete i padroni, ma ad una condizione, che consiste nel fare ciò tra di voi, in famiglia, senza calpestare in nulla i diritti e le credenze degli altri. Per attuare ciò, non vi è bisogno di frazionare il territorio dello Stato in tante caselle quante sono le forme di governo conosciute e accettate. Ancora una volta, lascio ognuno e ogni cosa al suo posto. Chiedo solo che ci si stringa un po’ e che i dissenzienti siano lasciati liberi di costruire la loro chiesa e di adorare il dio Potere a modo loro.
E per quanto riguarda i mezzi pratici, se non vi dispiace?
Lì è l’aspetto forte della mia proposta. Voi conoscete il meccanismo dello stato civile? Non si tratta altro che di farne una nuova applicazione. Apriamo, in ogni comune, un nuovo ufficio, l’ufficio dello STATO POLITICO. Questo ufficio fa pervenire, ad ogni cittadino maggiorenne, un formulario da riempire, come quello per le imposte o per la tassa sui cani.
«Domanda. Qual è la forma di governo che desiderate?».
Voi rispondete in tutta libertà: monarchia, o democrazia, o altro.
«Domanda. Se è monarchia, la volete assoluta o moderata… e attraverso quali istituti?».
Voi rispondete: costituzionale, immagino. Quale che sia, d’altronde, la vostra risposta, vi si iscrive su di un registro apposito, e una volta iscritto, e senza che sorgano reclami da parte vostra, nelle forme e nei tempi legalmente prescritti, eccovi suddito del re o cittadino della repubblica. A partire da quel momento, voi non avete più nulla a che fare con il governo degli altri, non più di un suddito prussiano con l’autorità belga. Voi obbedite ai vostri capi, alle vostre leggi, ai vostri regolamenti; siete giudicati dai vostri pari, tassati dai vostri rappresentanti; voi non pagate né più né meno, ma, moralmente, è tutta un’altra cosa. Finalmente, ognuno è nel suo stato politico, assolutamente come se non ce ne fosse, a lato, un altro, che dico? dieci altri governi, avendo ugualmente ciascuno i propri contribuenti.
Sorge una divergenza tra soggetti di governi diversi, o tra un governo e i soggetti di un altro? È sufficiente conformarsi alle regole già attualmente in vigore tra nazioni vicine e amiche, e se vi sono punti controversi, il diritto delle genti e tutti i possibili diritti daranno certamente una risposta. Per il resto bastano i tribunali ordinari.
Ecco una nuova miniera di processi la cui invenzione metterà gli avvocati dalla vostra parte.
Ci conto proprio.
Ci possono e ci debbono essere anche interessi comuni a tutti gli abitanti di una determinata circoscrizione, qualunque sia il loro stato politico. In questo caso ogni governo sarebbe per l’intera nazione (la nazione politica) pressappoco ciò che è ognuno dei cantoni svizzeri o piuttosto ognuno degli Stati dell’Unione americana rispetto al governo federale.
Così tutti questi problemi nuovi e, a prima vista, così tremendi, trovano soluzioni già belle preparate, una giurisprudenza già consolidata nella maggior parte dei casi, e non presentano difficoltà insormontabili da nessuna parte.
Capiterà certamente che degli animi malevoli, dei sognatori incorreggibili, delle nature asociali, non aderiranno a nessuna forma conosciuta di governo. Ci saranno delle minoranze così esigue che non avranno di che pagare i costi del loro ideale politico. Tanto peggio per esse e per loro. Sia gli uni che gli altri saranno liberi di fare propaganda e di reclutare aderenti fino a completare il numero, o piuttosto a soddisfare i costi necessari, in quanto tutto si riassumerà in un problema di autosufficienza finanziaria, e fino a quel momento dovranno optare per una delle forme di governo già instaurate. È pensabile che minoranze di così scarso valore non causeranno alcun disordine.
Non è tutto: i problemi sorgono raramente a seguito di opinioni fortemente divergenti. Ci si batte molto di più e con maggior vigore per delle sfumature che non per dei colori netti. In Belgio, nonostante alcuni difetti riconosciuti, l’immensa maggioranza opterebbe, non ne dubito, per le istituzioni esistenti, ma nell’applicazione pratica, saremmo tutti concordemente d’accordo? Non abbiamo forse due o tre milioni di cattolici che non seguono altri che M. de Theux, e due o tre milioni di liberali che non seguono altri che sé stessi? Come conciliarli? Non conciliando affatto, lasciando ogni partito libero di governarsi a suo modo – e a sue spese. Che sia teocrazia se una la vuole; la libertà deve arrivare fino a garantire il diritto di non essere liberi, come uno desidera.
Soltanto, poiché non bisogna che per delle sfumature d’opinione si moltiplichino all’infinito gli ingranaggi governativi, ci si sforzerà, nell’interesse generale, di semplificare la macchina e di applicare la stessa forza motrice per produrre un effetto doppio o triplo. Mi spiego meglio: un re saggio e apertamente ligio alla costituzione andrà bene sia ai cattolici che ai liberali; occorrerà soltanto raddoppiare il posto di primo ministro, M. de Theux per gli uni, M. Frère-Orban per gli altri, il re per tutti.
Chi impedirebbe addirittura di arrivare al punto che i signori tal dei tali, che io non nomino nemmeno, si mettessero d’accordo sul fatto che lo stesso prìncipe applicasse il suo alto intelletto e la sua ricca esperienza a vantaggio di costoro senza che essi avessero, d’ora in poi, il triste imbarazzo di esprimere il loro parere sull’operato del governo? E in effetti, se ci penso, non vedo perché, introducendo una modifica in senso opposto, questo prìncipe unico, non potrebbe essere un presidente del tutto accettabile di una repubblica onesta e moderata. Il cumulo di funzioni non sarebbe vietato.
III
La libertà ha i suoi inconvenienti e i suoi pericoli,
ma alla lunga finisce per giovare sempre.
M. A. Deschamps
Un vantaggio incomparabile del mio sistema, che ne ha d’altronde molti altri, è di rendere facili, naturali e perfettamente legittimi quei cambiamenti che, ai nostri giorni, hanno screditato persone estremamente coraggiose e sono crudelmente bollati sotto il nome di eresie politiche. Questa frenesia di cambiamento, che è stata imputata come un crimine a cittadini onesti e che ha fatto tacciare di leggerezza o di ingratitudine certe nazioni antiche e moderne, che cosa è dopo tutto se non il desiderio di progresso? E addirittura, in molti casi, non è strano che si accusi di incoerenza, di volubilità, proprio quelli che restano coerenti con sé stessi. Si vuole la fedeltà al partito, alla bandiera, al prìncipe; molto bene, se il prìncipe e il partito non mutano. Ma se si trasformano o fanno posto ad altri che non risultano affatto equivalenti ai primi?
Cosa! avrei preso per guida, per capo, per maestro, se voi volete, un prìncipe superiore al suo secolo, mi sarei piegato davanti alla sua volontà potente e creatrice, avrei abdicato al mio potere di iniziativa personale per metterlo al servizio del suo genio, e poi, questo prìncipe muore, ed ecco che gli succede, per diritto di primogenitura, un qualche spirito meschino, imbevuto di false idee, che demolisce pezzo dopo pezzo l’opera di suo padre, e voi volete che io gli resti fedele?
Perché? Perché è l’erede diretto e legittimo del primo? Diretto ve lo concedo, ma legittimo, almeno per quanto mi riguarda, lo nego formalmente. Io non insorgerei per questo; vi ho detto che detesto le rivoluzioni, ma mi riterrei leso e in diritto di cambiare, una volta che il contratto fosse terminato.
«Sire – diceva Madame de Staël all’imperatore di Russia – il vostro carattere è per i vostri soggetti come una costituzione e la vostra coscienza una garanzia». «In questo caso – rispose l’imperatore Alexander – io non sarei che un imprevisto fortunato».
Questa battuta, così brillante e così vera, riassume perfettamente il mio pensiero.
La nostra panacea, se si vuole usare questa parola, è dunque la libera concorrenza in materia di governo. È il diritto di ognuno di cercare il proprio benessere ovunque egli ritenga che esso sia, di procurarsi la sicurezza alle condizioni che lo soddisfano. È, d’altra parte, il progresso assicurato, attraverso una lotta di emulazione tra i governi, costretti a gareggiare per guadagnarsi di continuo l’approvazione dei cittadini. È la libertà vera che si fa strada in tutto il mondo, la libertà che non si impone a nessuno, che è per ognuno proprio ciò che ognuno vuole che essa sia, che non opprime e non inganna e contro la quale il diritto di appello è sempre possibile. Per godere di questa libertà non occorrerà rinunciare né alle tradizioni della patria né alle dolcezze della famiglia, non occorrerà affatto imparare a pensare in una lingua straniera; non ci sarà per nulla bisogno di attraversare fiumi e mari, trascinando con sé le spoglie dei propri avi. Occorrerà solo una semplice dichiarazione davanti al responsabile del registro politico del proprio comune, e senza essersi nemmeno tolti la vestaglia e le pantofole, ci si troverà, secondo il proprio volere, passati dalla repubblica alla monarchia, dal parlamentarismo all’autocrazia, dall’oligarchia alla democrazia o persino all’an-archia di Monsieur Proudhon.
Siete forse stanchi del brusìo dei discorsi, vale a dire delle logomachie della tribuna parlamentare o dei baci un po’ rudi della dea Libertà? Siete sazi di liberalismo e di clericalismo, al punto da confondere talvolta M. Dumortier con M. De Frè e di non sapere più in che cosa differiscano di preciso M. Rogier e M. De Decker? Aspirate al riposo, ai molli languori di un dispotismo onesto? Sentite il bisogno di un governo che pensi per voi, si dia da fare al vostro posto, abbia lo sguardo su tutto e la mano dappertutto, e che giochi a vostro profitto quel ruolo di vice-provvidenza che piace tanto ai governi in generale?
Voi non dovete emigrare verso il Sud come le rondini all’equinozio e le oche a novembre. Tutto ciò che desiderate è qui, presso di voi, altrove, dappertutto. Fate la vostra domanda di iscrizione, prendete il vostro posto! Ciò che vi è di ammirevole in questa proposta, è che essa sopprime per sempre rivoluzioni, sommosse, disordini di strada, fino alle più impercettibili emozioni della fibra politica.
Non siete contento del vostro governo? Prendete un altro governo.
Sono quattro piccole parole, piene d’orrore e intrise di sangue, che tutte le corti d’assise, alte o basse, marziali, ecclesiali, speciali, tutte senza eccezione condannerebbero per acclamazione come colpevoli di provocare alla rivolta. Queste quattro piccole parole diventano innocenti e pure come tanti seminaristi, e così salutari come il rimedio di cui diffidava a torto M. de Pourceaugnac.
«Prendete un altro governo» vale a dire passate al registro dello stato politico, fate una scappellata all’indirizzo del direttore amministrativo, pregatelo, con buone parole, di cancellarvi dalla lista in cui figurate e di trasferire il vostro nome in quella di… chiunque desideriate! Il direttore amministrativo si metterà gli occhiali, aprirà il registro, prenderà nota della vostra dichiarazione, vi consegnerà la ricevuta. Voi lo saluterete nuovamente, e la rivoluzione sarà compiuta, senza altro spargimento che quello di una goccia d’inchiostro. Compiuta per voi solo, ne convengo. La vostra decisione non coinvolgerà obbligatoriamente nessuno, e in questo consisterà il suo merito. Non ci sarà né una maggioranza trionfante né una minoranza vinta, ma nulla impedirà ai quattro milioni e seicentomila Belgi di seguire il vostro esempio, se lo condividono. Il registro dello stato politico assumerà nuovo personale.
Qual è in fondo, messo da parte ogni pregiudizio derivante dall’educazione, la funzione di ogni governo? È, l’ho già indicata, quella di fornire ai cittadini la sicurezza (assumo questo termine nella sua accezione più ampia) alle migliori condizioni possibili. So bene che, su questo punto, le idee sono ancora un po’ confuse. Ci sono persone a cui non basterebbe un esercito per proteggerle contro i nemici esterni, una polizia, una gendarmeria, il Signor procuratore del re e i Signori giudici per assicurare l’ordine all’interno e per far rispettare il diritto e la proprietà.
So che ve ne sono alcuni che vogliono un governo ricco di posti ben retribuiti, di titoli altisonanti e di dichiarazioni roboanti; con doganieri alle frontiere per proteggere le loro industrie contro i consumatori e con schiere di funzionari che proteggano le arti, i teatri, le attrici. Ma so anche che si tratta di vecchiume diffuso da quei governi-provvidenza di cui abbiamo parlato poc’anzi. In attesa che la libera sperimentazione abbia fatto giustizia di tutto ciò, non vedo che male possa fare a che rimanga in esistenza da qualche parte, per la soddisfazione di coloro che amano ciò. Una sola cosa si chiede: la libertà di scelta.
Perché tutto consiste in questo: libertà di scelta, concorrenza. Laissez faire, laissez passer! Questo sublime motto, inscritto sulla bandiera della scienza economica, sarà un giorno anche quello del mondo politico. Economia politica, il nome già lo fa prevedere, e, cosa curiosa, nonostante si cerchi di cambiare questo nome, per esempio in economia sociale, il buon senso della gente ha rifiutato di accettarlo. La scienza economica è e sarà la scienza politica per eccellenza. Non è forse essa che ha inventato questo principio moderno di non intervento e la sua formula: laissez faire, laissez passer.
Dunque, libera concorrenza in materia di governo, come in ogni altro aspetto. A partire da ciò, passato il primo momento di stupore, voi scorgete l’immagine di un paese che si protende verso la concorrenza tra i governi, vale a dire, che possiede simultaneamente, regolarmente installati, tanti governi quanti ne sono stati inventati e se ne inventerà ancora.
Sì, davvero! questo sarà un bel pasticcio. E voi credete che ne usciremo fuori da questo guazzabuglio?
Di certo, e non vi è nulla di più facile da immaginare, se si riflette anche solo un momento.
Non vi rammentate forse del tempo in cui ci si sgozzava l’un l’altro per la religione più di quanto non ci si sia mai sgozzati per questioni politiche? Allorché il divino creatore degli esseri era il Dio degli eserciti, il Dio vendicatore e senza pietà, nel cui nome il sangue colava a fiotti? Gli esseri umani di tutte le epoche si sono compiaciuti di prendere in mano la causa di Dio e di farlo complice delle loro passioni sanguinarie.
Il tempo in cui si urlava: «Massacrateli tutti! Dio riconoscerà i suoi adepti!». Che ne è di quell’odio implacabile?
Il progresso dello spirito umano lo ha spazzato via come fa il vento d’autunno con le foglie morte. Le religioni, nel cui nome si approntavano un tempo i roghi e gli strumenti di tortura, convivono tranquillamente, una accanto all’altra, sotto le stesse leggi, sovvenzionate dalla stessa fonte, e se ogni setta predica sempre la propria superiorità, è già tanto se essa maledice ancora la setta rivale.
Ebbene, ciò che è divenuto possibile nei recinti oscuri e insondabili della coscienza, con lo spirito di proselitismo degli uni, l’intolleranza degli altri, il fanatismo e l’ignoranza delle masse; ciò che è possibile al punto che lo si riscontra e se ne fa esperienza in mezzo mondo, senza che ne derivino più né disordini né violenze; al contrario con quel carattere ben evidente che là dove le credenze sono diverse, le sette numerose e su di un piede di perfetta uguaglianza legale, esse sono anche, tutte e ognuna, più sagge, più preoccupate della loro dignità e della purezza della loro morale che in ogni altro luogo; ciò che è divenuto possibile in queste difficili condizioni, non lo sarebbe a maggior ragione nel campo della politica, dove tutto dovrebbe essere chiaro, dove l’obiettivo si esprime attraverso una frase, dove la scienza si chiarisce in quattro parole?
Al giorno d’oggi, dove mai un governo esiste se non a patto di escludere tutti gli altri; dove un partito non domina se non dopo aver schiacciato i partiti avversi; dove una maggioranza che governa non ha sempre al suo fianco una minoranza impaziente di governare. Al giorno d’oggi quanto di più inevitabile che i partiti si odino e vivano, se non in guerra, quanto meno in uno stato di pace armata? E chi si stupirebbe di vedere le minoranze intrigare e rimestare senza posa, e i governi comprimere violentemente tutte le aspirazioni verso una diversa forma politica, anch’essa totalmente assoluta, di modo che la società si compone di ambiziosi inaciditi, che aspettano l’ora della vendetta, e di ambiziosi soddisfatti che si ingozzano sull’orlo del precipizio? I princìpi erronei non portano affatto a risultati giusti e la forza non produrrà mai né la verità né il diritto.
Ma immaginiamo che ogni costrizione venga a cadere, che ogni cittadino adulto divenga e rimanga libero, non solo una volta, all’indomani di qualche rivoluzione sanguinosa, ma sempre e dappertutto, libero di scegliere nel dedalo delle realtà di governo, quelle che si adattano al suo spirito e al suo carattere o ai suoi bisogni personali; libero di scegliere, intendiamoci bene, ma non di imporre la sua scelta agli altri. Allora ogni disordine viene meno, ogni sterile conflitto diviene impossibile.
Questo non è che uno degli aspetti del problema. Eccone un altro: dal momento che il comportamento dei governi è sottomesso alla sperimentazione, alla libera concorrenza, occorre che essi migliorino, si perfezionino, è la legge naturale. Niente più nubi, profondità che non nascondono altro che il vuoto, niente più astuzie caratterizzate come finezze diplomatiche, niente più di quelle viltà né di quelle infamie innocentemente mascherate sotto la ragion di Stato, niente più ambizioni di corte o di parte, mal dissimulate sotto il falso titolo dell’onore o dell’interesse nazionale. Per farla breve, la fine degli inganni sulla natura e sulla qualità di ciò che ci propina il governo.
Amen! Permettetemi comunque una piccola obiezione. Quando tutte le varietà possibili di governo saranno state sperimentate dappertutto, che cosa ne verrà fuori? Ce ne sarà evidentemente una che sarà riconosciuta come la migliore, e che, dunque, tutti vorranno, la qual cosa ci riporterà ad avere per tutti un solo governo. In altre parole, ritorneremo esattamente al punto di partenza.
Non così di fretta, ve ne prego, amico lettore.
Che cosa! Secondo voi, tutti sarebbero d’accordo e voi definite ciò un ritorno al punto di partenza? La vostra obiezione mi concede la vittoria riguardo all’aspetto principale della mia proposta, in quanto essa suppone che un accordo universale si stabilisca attraverso il semplice funzionamento del laissez faire, laissez passer. Io mi potrei limitare a prenderne atto e a considerarvi come un iscritto, convertito al mio sistema, ma non voglio avere persone convinte a metà e non cerco minimamente di fare proseliti.
No, non si tornerà affatto ad avere una sola forma di governo, se non forse in un futuro lontano; quando le funzioni di governo saranno ridotte, di comune accordo, alle espressioni più semplici. Noi non siamo per nulla a quel punto, né vicini a raggiungerlo. Per il momento, gli esseri umani non sono né tutti simili di animi e di costumi, né così facili da mettere d’accordo, come voi supponete, e il sistema della concorrenza è il solo possibile. Uno ha bisogno di movimento, di lotta, essendogli fatale il riposo; l’altro, sognatore e filosofo, non vede che di sfuggita i rivolgimenti della società, e i suoi pensieri prendono forma solo nella calma più profonda. Questi, spiantato, saggio, artista sconosciuto, ha bisogno di incoraggiamento e di sostegno per dar vita alla propria opera immortale; gli manca un laboratorio, per i suoi esperimenti, un palazzo da costruire, un pezzo di marmo per scolpire un dio. Quegli, genio potente ed estroso, non sopporta alcun ostacolo e spezza il braccio di chi lo vuole guidare. A uno occorrerà la repubblica, le sue dedizioni e le sue abnegazioni; all’altro, la monarchia assoluta, le sue pompe, i suoi splendori. Quel tale oratore vorrà un parlamento, il tal altro, incapace di mettere assieme due parole, chiederà che i parolai vengano messi al bando. Ci sono spiriti forti e teste deboli, ambiziosi insaziabili e persone semplici, contente del poco che è loro toccato; ci sono infine, altrettanti caratteri che individui, altrettanti bisogni che nature differenti. Come accontentare contemporaneamente tutti con una sola forma di governo? Evidentemente ci si adatterà secondo gradazioni molto ineguali; ci saranno dei soddisfatti, degli indifferenti, delle frange di scontenti, e persino dei cospiratori.
In ogni caso, sappiate che la natura umana farà in modo che il numero dei soddisfatti sia minore di quello degli scontenti. Per quanto perfetto questo governo unico possa supporsi, e fosse anche la perfezione assoluta, ci sarà sempre una opposizione: quella delle nature imperfette, alle quali ogni perfezione è incomprensibile e sgradevole. Nel mio sistema, i dissapori più vivaci non saranno che battibecchi familiari, con il divorzio come rimedio estremo.
Ma nel sistema della concorrenza, quale governo vorrà lasciarsi distanziare dagli altri sulla via del progresso? Quali miglioramenti, felicemente attuati presso i nostri vicini, ci si rifiuterà di attuare presso di sé? Questa emulazione, costantemente attiva, darà vita ad eventi prodigiosi. Ma anche i governati saranno tutti esseri esemplari. Liberi di andare e di venire, di parlare o di tacere, d’agire o di lasciar fare, non avranno altri che sé stessi con cui prendersela, nel caso non fossero pienamente soddisfatti. A partire da quel momento, al posto di fare opposizione per essere notati, si metterà da parte l’amor proprio per persuadersi e persuadere gli altri che l’autorità da cui si dipende è la migliore che si possa immaginare. Così si instaurerà tra governanti e governati una dolce intimità, una confidenza reciproca e una semplicità di relazioni facile da concepire.
Che cosa? Voi sognate sul serio e del tutto sveglio questo accordo completo dei partiti e delle fazioni politiche? Voi contate di farli vivere l’uno accanto all’altro sullo stesso suolo, senza che essi si scontrino, senza che i più forti tentino di assorbire i più deboli? Voi immaginate che da questa grande Babele uscirà la lingua universale?
Io credo in una lingua universale, come credo nella potenza sovrana della libertà al fine di pacificare il mondo; non intendo fare previsioni quanto al giorno o all’ora in cui avverrà questo accordo. La mia idea è un seme che getto al vento; cadrà su un terreno fertile o sul lastricato della strada? Non è più affar mio. Io non propongo niente. Tutto, d’altronde, richiede tempo. Chi avrebbe creduto, un secolo fa, alla libertà di coscienza? E chi, ai giorni nostri, oserebbe rimetterla in discussione? Molto tempo fa vi era chi rideva ancora di questa idea bizzarra che la stampa era una potenza, un potere all’interno dello Stato? E adesso, proprio gli uomini di Stato si inchinano al suo cospetto. E questa nuova potenza, l’opinione pubblica, che ciascuno di noi ha visto nascere e che, ancora vincolata dalle sue fasce, impone le sue direttive agli imperi e pesa da sovrana persino nelle deliberazioni dei despoti, l’avevate voi prevista, e non avreste forse riso in faccia a colui che avesse osato predirne la venuta?
Dal momento che voi non avanzate alcuna proposta concreta, potremmo discuterne. Ditemi, ad esempio, come, in questo ingarbugliamento di poteri, ognuno riconoscerà quelli a cui appartiene. E, se uno può, in ogni momento, iscriversi sotto il governo tale, svincolarsi dal governo talaltro, su che cosa si farà affidamento per pagare le spese e saldare i bilanci delle liste civiche?
Innanzitutto, io non ammetto che uno sia libero di cambiare in qualsiasi momento e di portare così alla bancarotta il proprio governo. Si può assegnare a questo tipo di impegni un minimo di durata, supponiamo, un anno. Esempi ricavati dalla Francia e da altri paesi, mi autorizzano a pensare che è possibile sopportare, durante tutto un anno, il governo che ci si è dati. Le spese, regolarmente votate e ripartite, obbligherebbero ognuno a versare il suo contributo e, in caso di contestazione, si pronuncerebbero i tribunali ordinari. Quanto al fatto che ciascuno ritrovi i suoi soggetti, i suoi amministrati, o i suoi contribuenti, sarebbe forse più difficile per ogni culto recensire i suoi fedeli e per ogni società contare i suoi azionisti?
Ma voi avreste dieci governi o forse venti al posto di uno solo, dunque altrettanti bilanci, liste civiche, spese generali ripetute altrettante volte quanti sono gli stati maggiori.
Non nego affatto la portata dell’obiezione. Faccio solo notare che in virtù della legge della concorrenza, ciascuno di questi governi tenderà, necessariamente, a diventare quanto più snello e parsimonioso possibile. Gli stati maggiori che ci costano, Dio solo sa, un occhio della testa, si ridurrebbero allo stretto necessario, e le sinecure soppresse restituirebbero i loro titolari al lavoro produttivo. Nonostante ciò, il problema non sarebbe risolto che a metà e io non amo le soluzioni approssimative. Troppi governi sarebbero un male, una causa di spese esagerate, se non di confusione. Ebbene, non appena questo disagio sarà avvertito, il rimedio non si farà attendere. Il buon senso della gente farà giustizia delle esagerazioni, e ben presto non sopravviveranno che quei governi che saranno davvero necessari: gli altri moriranno d’inedia. Vedete che la libertà ha una risposta a tutto.
Può essere. E le dinastie regnanti, e le maggioranze trionfanti, e i corpi costituiti, e le dottrine in vigore, pensate proprio che essi abdicheranno per schierarsi sotto le bandiere del laissez faire, laissez passer? Voi avete un bel dire che non proponete niente, non si evade così la discussione.
Innanzitutto ditemi se voi pensate fermamente che essi siano abbastanza sicuri delle loro posizioni a tal punto da avere sempre interesse a rifiutare un’ampia garanzia di esistenza? Quanto a me io non licenzio nessuno. Tutti i governi esistono in virtù di una forza che essi attingono da qualche parte al di fuori di essi, e di cui fanno un uso più o meno abile per perpetuarsi. A partire da ciò essi hanno il loro posto assicurato nel mio schema organizzativo. Che debbano perdere inizialmente un buon numero di aderenti più o meno volontari, questo mi guardo bene dal negarlo, ma se vogliamo parlare delle sorti future, quali invidiabili compensazioni sotto l’aspetto della sicurezza dei poteri e della loro stabilità! Meno sudditi, meno contribuenti, è il caso di dirlo, ma in cambio, sottomissione assoluta e nonostante ciò volontaria durante la durata del contratto. Niente più costrizioni, poche guardie, niente più polizia, niente più soldati, o quel che basta per una parata, con i più prestanti che ci siano. Le spese che diminuiscono più rapidamente di quanto non diminuiscano le entrate. Niente più prestiti, niente più ristrettezze finanziarie; si avrà ciò che si è visto solo nel Nuovo Mondo, delle economie per mezzo delle quali si potrà avere persone felici. Si sarà benedetti, soffusi d’incenso, e non parlo di quei vapori inebrianti che si aspirano attraverso il naso e hanno dei poteri che stordiscono, ma di veri profumi d’Arabia, fatti per nasi di alta classe. Quale dinastia non amerebbe rendersi immortale in tal modo? Quale maggioranza non acconsentirebbe alla minoranza di emigrare in massa?
Vedete infine come un sistema che ha per base il grande principio economico del laissez faire riesce a sormontare tutte le difficoltà. La verità non è vera a metà; essa è la verità, né più né meno. Al giorno d’oggi abbiamo dinastie regnanti e dinastie decadute; principi che portano la corona e altri a cui non sarebbe dispiaciuto portarla; e ciascuno ha il suo partito; e ogni partito ha per missione principale di mettere i bastoni tra le ruote del carro dello Stato, fino al momento in cui, essendosi il carro rovesciato, essi possono a loro volta salirvi sopra e rischiare di capovolgersi. Gioco attraente di altalena, di cui i popoli pagano il prezzo senza stancarsene, come sosteneva Paul-Louis Courier.
Con il nostro metodo, niente più di questi costosi equilibrismi né di cadute con grande fracasso; niente più cospirazioni o usurpazioni; tutti e nessuno sono legittimi. Si è legittimi senza contestazioni, fino a quando si dura, e solamente per i propri sostenitori. Al di fuori di ciò, nessun diritto divino o terrestre, se non il diritto di modificarsi, di perfezionare i propri piani e di fare nuovamente appello agli azionisti.
Niente esilio, né proscrizione, né confische, né persecuzioni di alcun genere. Il governo che cade liquida i suoi finanziatori; se ha agito onestamente, se la sua contabilità è in regola, se gli statuti, costituzionali o altro che siano, sono stati fedelmente rispettati, può lasciare il palazzo a testa alta e andare in campagna a redigere le sue memorie giustificative. Sopraggiungono altre circostanze: le idee si modificano, una lacuna si avverte all’interno dello Stato collettivo, manca un servizio specifico, alcuni azionisti inattivi o scontenti cercano una collocazione … Subito si lancia un manifesto, si raccolgono adesioni, e quando ci si crede abbastanza forti, invece di scendere in piazza, come si dice nel gergo delle sommosse, si sale all’ufficio del registro politico, si fa una dichiarazione sostenuta dal deposito di un esemplare degli statuti fondamentali e da un registro su cui gli aderenti effettuano la loro iscrizione, ed ecco un governo in più. Il resto è un problema interno, di amministrazione, e concerne solo gli associati.
Propongo una quota minima per la registrazione e per la modifica, che gli impiegati del registro politico percepiranno essi stessi a loro profitto. Qualche centinaio di franchi per fondare un governo, alcuni centesimi a persona per passare dall’uno all’altro. Gli impiegati non avranno altre entrate, ma immagino che essi non saranno mal retribuiti e che questi impieghi saranno molto ambiti.
Non siete forse stupito di questa semplicità degli ingranaggi, di questo meccanismo potente che un bambino potrebbe guidare, e che, nondimeno, risponde a tutti i bisogni? Cercate, tastate, scrutate, analizzate! Io vi sfido a trovare un difetto su un qualsiasi punto.
Così come sono convinto che nessuno si prenderà la briga di preoccuparsi di questa proposta: l’essere umano è fatto così. È proprio questa convinzione che mi spinge a far conoscere la mia idea. In effetti, se non ho fatto alcun proselito, è perché tutto ciò non è che una costruzione teorica, e nessun potere costituito, nessuna maggioranza, nessuna corporazione, nessun individuo che disponga di checchessia, ha il diritto di volermene a male.
E se, per caso, mi aveste convertito?
Ssss… Voi finirete per compromettermi!