Ritornare alla scimmia
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C’è un video virale di dodici secondi che spesso viene condiviso su Twitter. Uno scimpanzé in uno zoo si lancia da un’altalena, descrivendo un parabola perfetta. Atterra di fronte alle sbarre della gabbia e si mette a gettare sabbia violentemente contro la folla di spettatori di fronte, fino a farla scappare. Messi in fuga gli umani, lo scimpanzé si mette a camminare petto in fuori con una spavalderia indescrivibile. Chi ha montato il video ha ritenuto, in maniera appropriata, di aggiungere come colonna sonora L’Incudine di Crom, tratta dal film Conan il Barbaro.
I commenti di risposta al video sono sempre gli stessi. Return to monke. Monke scritto senza la y finale – chi ha tempo per la grammatica umana? Ritorniamo indietro, ridiventiamo scimmia. Dio, come vorrei essere io in questo momento. Rigetta l’umanità, rifiuta la modernità. Torna a lanciarti da albero ad albero, tira la sabbia addosso a chi non vuole fare altrettanto. Potete ritrovare commenti del genere non solo sotto questo video, ma anche in qualsiasi contenuto online che abbia a che fare con ogni specie di primate. Gorilla imbronciati, gibboni curiosi, macachi che importunano turisti per farsi dare da mangiare sono protagonisti di milioni di meme sfornati dalla instancabile macchina della cultura online. Funny Monke Meme Compilation 2020, 3,5 milioni di visualizzazioni. Milioni di utenti d’accordo con lo stesso messaggio: l’umanità moderna fa schifo, vogliamo tornare indietro.
Reject modernity, return to tradition è uno slogan molto popolare negli ambienti della destra alt right. Tocca ammettere che la memetica di destra ha quel tocco in più che manca alle altre parti politiche, quel dono della sintesi, quella capacità di percepire frustrazione e creare motti che incitano a relazionarsi (non ha invece alcuna capacità di analisi e sbaglia puntualmente nell’identificare cause e soluzioni, ma dopotutto stiamo parlando della destra). Questa modernità fatta di globalizzazione, immigrazione, emancipazione di genere è il male, è la ragione per cui la tua vita non ha prospettive. Riscopriamo le tradizioni, la difesa della patria, la coesione sociale e di razza, la famiglia con mogliettina in cucina e tanti figli purosangue. E perché fermarsi lì? Perché non mettere in mezzo anche salvaguardia dell’ambiente, della vita di campagna, della cultura agraria, delle società degli albori? L’ecofascismo fa presa, ma come gli altri tipi di fascismo, è scorretto, moralmente e storicamente. La vita degli anni ‘30 o del boom del dopoguerra in primo luogo non era idilliaca; figuriamoci se è mai esistita un’età dell’oro dell’umanità. Adulando un passato mai esistito, si finisce per costruire false memorie.
Tuttavia, è innegabile che la vita in questo tardocapitalismo, di cui si è annunciato da decenni il decesso ma che non accenna ancora a morire, faccia schifo. Ma mentre scrolli il feed piena di post che riaffermano in tutte le salse che sì, è vero, la vita nel tardocapitalismo fa schifo, ti trovi improvvisamente di fronte a un video di una scimmia, qualcosa che ti somiglia fisicamente ma che a differenza tua si gode la vita, al sole, libera da obblighi lavorativi, imposizioni sociali, entusiasta di esistere. Ed è qui che uno slogan della destra viene preso, spogliato dei sottontesi reazionari che aveva in origine, e riadattato in maniera universale. O meglio, reinterpretato anche in questo caso in chiave politica, a seconda di chi lo legge. Abbiamo già visto come i biofascisti vorrebbero ritornare alla scimmia. A questo si aggiunge l’interpretazione ambientalista più classica, vegana e antispecista. Quella paleosocialista, condita di teorie sul mutualismo, autodeterminazione e immancabile luddismo. C’è anche quella anarcoprimitivista, in stile Ted Kaczynski: se la rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state un disastro per la razza umana, allora la discesa dagli alberi ne rappresenta il peccato originale.
Insomma, tutti concordi, in un modo o nell’altro, nel voler tornare alla scimmia. Però rimane una domanda. A quale scimmia, esattamente?
Quando ho scritto Zoocrazia – la vita politica degli animali, ho analizzato i sistemi sociali di diverse specie animali e i potenziali vantaggi evolutivi derivanti da questi sistemi. L’ho fatto cercando, a volte anche in maniera forzata, parallelismi coi sistemi politici umani con cui siamo più familiari: dai meccanismi decisionali di gruppo e come questi ricordano i sistemi elettorali umani, alla suddivisione gerarchica del lavoro, fino a parlare di altruismo comunista tra i pipistrelli vampiri, di sindacalismo nei corvi, di pulizia etnica nei leoni. Mi sono soffermato, ovviamente, anche sulle principali specie di primati, con le quali la nostra somiglianza è fisica e genetica. Possiamo riscontrare tra loro e noi anche una somiglianza sociale e politica?
Macachi, cebi e scimmie cappuccine vivono in società stratificate, in cui singoli individui o gruppi familiari competono per l’accumulo di risorse alimentari, spazi e soprattutto, possibilità di riprodursi. Tessono trame di rapporti basate su scambi di favori e grooming, la pulitura da parassiti e detriti. Alleanze si creano e si smontano, individui diversi si avvicendano al top della gerarchia, e anche se possono stabilirsi rapporti di affetto e cura reciproca, soprattutto tra le femmine, l’imperativo sembra essere la ricerca del tornaconto personale a discapito degli altri. Qualcuno gli ha addirittura definiti animali machiavellici, calcolatori per necessità di sopravvivenza.
Anche gorilla hanno una struttura sociale gerarchica, ma impostata in maniera diversa. C’è un maschio dominante, di solito l’individuo più anziano e più forte, che mantiene una sorta di monopolio riproduttivo sugli altri maschi, accoppiandosi con più femmine in maniera quasi esclusiva. Ma il leader di turno non può fare il tiranno, perché il resto del gruppo può decidere di smettere di seguirlo e di far subentrare un maschio più giovane (che di nascosto un modo per accoppiarsi di solito lo trovano lo stesso). Studi hanno mostrato che sono i gorilla dominanti più collaborativi, più disposti a fare favori e distribuire grooming quelli ad avere maggior successo riproduttivo.
Il nostro genoma è per oltre il 98% identico a quello degli scimpanzé. Con i bonobo, i loro (e nostri) cugini più minuti e pacifici, questa somiglianza genetica è ancora superiore, appena di qualche punto decimale percentuale. Si potrebbe pensare quindi che abbiano delle dinamiche politiche non solo più simili alle nostre, ma anche simili tra loro. Solo che gli scimpanzé hanno una società patriarcale in cui maschi aggressivi lottano per il dominio, a volte anche in maniera letale, fino a inscenare regolamenti di conti interni tra fazioni e vere e proprie incursioni territoriali contro tribù rivali. I bonobo hanno invece una società ginecocratica, in cui conta la reputazione di tua madre, e in cui si preferisce appianare i conflitti col grooming e molto, molto sesso, spesso non riproduttivo e omosessuale, con una frequenza costante. Una comune di fricchettoni in cui non si fa in tempo a far degenerare le riunioni che sono già tutti impegnati a darci dentro a letto.
Gli oranghi fanno un po’ quello che gli pare.
Quale scimmia ha in mente, quindi, la persona che commenta return to monke sotto i video virali dei primati? A quale di queste società agogna? Probabilmente a nessuna: la maggiorparte della gente conosce ben poco della vita politica dei primati, la loro struttura sociale è appannaggio della biologia evolutiva, non fa parte del dibattito comune. E tocca constatare come la stragrande maggioranza di quei video non mostri specie di primati nel loro ambiente naturale. Sono filmati presi negli zoo, dove le caratteristiche di una società animale vengono falsate oppure, purtoppo molto spesso, video di esemplari tenuti in cattività da privati, animali esotici da compagnia, ai quali la possibilità di relazionarsi in una società animale è stata proprio negata. Qualsiasi sia il monke a cui si vuole ritornare, è un monke che non si conosce per davvero, o che non esiste in primo luogo. Una costruzione di false memorie.
Anche perché una constatazione assolutamente ovvia, ma sempre e comunque ignorata, è che noi esseri umani dalle scimmie non discendiamo. Con i primati abbiamo antenati comuni, vicini a noi più di ogni altra specie, certo, ma lo stesso non veniamo da loro, veniamo da un punto lontano in cui noi e loro eravamo una massa indistinta che non coincideva con nessuna delle specie attuali. La divergenza evolutiva tra esseri umani e scimmie antropomorfe è avvenuta milioni di anni fa: esistiamo sulla terra dallo stesso tempo e così come la nostra società è cambiata nel corso della storia, può essere cambiata la loro. Non è detto che la vita politica attuale dei primati assomigli a quella delle società umane degli albori, le cui caratteristiche andrebbero studiate più dalla paleoantropologia che dalla primatologia.
Ma anche se lo fosse, la verità è che indietro non si torna. Non solo perché il tardocapitalismo ha reso materialmente impossibile reimpostare la vita umana per farla assomigliare a quella di una scimmia. Ma proprio perché non esiste una scimmia alla quale ritornare. La nostra strada è sempre stata un’altra, ed è una strada che è sempre stata fortemente segnata dalla tecnologia. Dal fuoco alla ruota alle centrali nucleari, la società e la politica umana sono sempre state influenzate dalla tecnologia, in modo a volte liberatorio, a volte repressivo; ed è questa caratteristica, non l’intelligenza, quella che ci distingue dagli altri primati. In un certo senso, è la tecnologia ad averci reso umani. Tentare di estrarla da noi come fosse un dente cariato non funzionerebbe.
Però qualcosa si può fare: prendere ciò che della scimmia ci attrae, quello che nella scimmia leggiamo, e realizzarlo. Anche se non è “naturale”, non è primitivo ma filtrato da contenuti virali, non rappresentativo di quello che le scimmie fanno per davvero nel loro ambiente. Costruire un immaginario del tipo di scimmia che vorremmo essere, di quali caratteristiche vorremmo avere, e scartare tutto il resto. Non ritornare alla scimmia, bensì progredire verso la scimmia. Se anche la società e la politica sono frutto della selezione naturale, allora è solo verso tentativi, mutazioni e selezioni che queste possono potenzialmente migliorarsi. A differenza delle scimmie, abbiamo abbastanza consapevolezza e capacità predittiva su quale direzione intraprendere.
Indipendentemente dalla nostra posizione politica, la società umana ci lascia insoddisfatti: guardiamo noi stessi e non ci piace quello che vediamo. Nella scimmia abbiamo invece identificato quello che vorremmo essere davvero. Sugli animali spesso proiettiamo i nostri desideri, attribuiamo loro una libertà, una spontaneità che non pensiamo di avere. Raggiungerle non dipende dal recuperare una indefinita natura primordiale, ma dal realizzare ciò che la natura umana ha in potenza. Ovviamente, qualcosa potrebbe andare storto e finiremmo per accelerare la nostra estinzione (anche se sembra dagli ultimi trend che questa accelerazione non abbia bisogno di molto altro aiuto). Oppure potremmo azzeccarla e finire inavvertitamente per costruire, stavolta per davvero, quel paradiso terrestre che non è mai esisito ma di cui tutti giurano di ricordarsi. E se anche non dovessimo riuscirci, niente ci impedisce di tornare a gettare sabbia contro le sbarre, per sentirci un po’ più liberi.