Mr. Robot è la serie più importante del nostro tempo
∞
«Un tempo, i film e i romanzi distopici erano esercizi di immaginazione in cui i disastri agivano come pretesto narrativo per l’emersione di modi di vivere nuovi e differenti», notava Mark Fisher nel suo Realismo capitalista, fotografando un presente nel quale, al contrario, opere cinematografiche e letterarie sono sempre più la spia di un’incapacità generale di immaginare il superamento dell’angusto orizzonte neoliberista, che circoscrive e soffoca in maniera apparentemente ineluttabile le nostre vite.
Se attraverso l’arte è possibile cogliere lo spirito di un’epoca, misurando in qualche modo l’attuale forza egemonica del pensiero dominante, non si può evitare di prendere in considerazione quel settore che più di ogni altro nel tardocapitalismo ha registrato, forse non a caso, un notevole successo.
A metà strada tra la settima arte e la televisione, il mondo delle serie tv ben si adatta, infatti, alle caratteristiche del sistema neoliberista. Il costante senso di incompiutezza e incertezza, la tendenza dell’opera a farsi prodotto da consumare quanto più impazientemente e voracemente per poi passare al consumo successivo, la ritrosia di certi produttori e dello spettatore-consumatore a stabilire ed accettare una volta per tutte la fine di una trama, spremendola come una mucca da mungere per estrarne rispettivamente più valore e godimento possibili: questi sono solo alcuni degli elementi che ne fanno un’esemplificazione del modo in cui l’ideologia neoliberale ha plasmato il nostro mondo, rendendolo sempre più liquido e mercificandone ogni piccolo spazio e lasso di tempo; un mondo in cui, proprio come afferma Fisher, a regnare è la costante mancanza di un centro,il continuo differimento kafkiano e il cui orizzonte temporale è quello di un eterno presente.
Già solo per questo Mr. Robot merita di essere considerata una serie tv rivoluzionaria, con la sua struttura scarna oltre che con la sua sapiente coerenza interna: composta da 4 stagioni da 11 episodi in media a testa, la serie è stata sin da subito progettata per essere ultimata nel giro di poche stagioni nonché pensata per un pubblico di nicchia, sfidando le logiche del profitto che di fatto condizionano la scelta dei contenuti all’interno dell’industria dell’audiovisivo. È proprio per i suoi contenuti, però, che la serie dev’essere valorizzata, tralasciando l’aspetto meramente formale-strutturale.
Ci sarà sempre un prima e un dopo Mr. Robot
La creatura di Sam Esmail, al cui centro troviamo le vicende di un giovane hacker anarchico, Elliot Alderson (interpretato da uno straordinario Rami Malek), segna una svolta all’interno del variegato mondo delle serie tv: la capacità di mettere in scena immaginari futuri partendo dal reale e parlando direttamente allo spettatore, non appiattendosi su un eterno presente che consente tutt’al più di indulgere ad un fiacco realismo. La differenza sostanziale tra una serie come questa e le altre del ventennio trascorso si nota meglio se si opera un confronto, a titolo esemplificativo, con quella che forse è la serie più riuscita degli anni appena precedenti a Mr. Robot, vale a dire Breaking bad.
Sia in Mr. Robot che in Breaking bad il protagonista appartiene alla schiera degli sconfitti del capitalismo, ma in Breaking bad Walter White reagisce alle ingiustizie di cui è vittima abbracciando il lato oscuro del sistema, diventandone cioè egli stesso un agente, anche se della sua parte peggiore. La risposta di Heisenberg, nell’opera di Vince Gilligan, è di tipo machistico-individualistico, sfociando nel nichilismo più puro: qui il protagonista, trasformatosi in uno dei più potenti criminali d’America, è solo apparentemente fuori e contro il sistema, ma in realtà vi è addentrato più che mai, poiché accetta la legge del più forte come proprio naturale orizzonte di (non) senso in conseguenza del male subito. In tal caso l’autore sembra voler lanciare il messaggio per cui non c’è alternativa al di fuori di questo sistema.
Mr. Robot, d’altra parte, è la prima serie che, nell’epoca neoliberista, oltrepassa coraggiosamente il confine dettato dal realismo capitalista, mostrando non solo che un’alternativa c’è, ma che essa è realizzabile, andando oltre anche il Joker di Todd Phillips. Se «l’eleganza di Joker è nel fatto che nella trama manca il passaggio dalla pulsione autodistruttiva a quello che Michael Moore chiama il “nuovo desiderio” di un progetto politico di emancipazione, e noi spettatori siamo chiamati a riempire quel vuoto», l’eleganza di Mr. Robot sta esattamente nel contemplare tutti questi elementi all’interno di una tensione dialettica che rifugge semplificazioni, isolazionismi od omissioni di comodo.
La storia di Elliot Alderson e della sua FSociety è sin dalle prime battute una pesantissima critica della società attuale, sempre accompagnata dal tentativo di superare lo stato di cose presente, con tutte le contraddizioni e le difficoltà che pure, inevitabilmente, si presenteranno lungo il percorso.
Al pari del Joker di Phillips, Elliot proviene da un’infanzia tragica, essendo rimasto orfano del padre morto di cancro a causa delle attività inquinanti della più potente multinazionale del mondo, la E-Corp, e con il quale scoprirà di avere un legame ancora più profondo di quanto immaginasse.
Dipendente della Allsafe, società di cybersecurity che ha come principale cliente proprio la E-Corp, il protagonista altri non è che uno “scarto” della società capitalistica in piena contraddizione perché si ritrova a essere contemporaneamente dentro ma contro il sistema, detesta i padroni del mondo ma finisce per lavorare al loro seguito per mero bisogno. È questa una prima novità di Mr. Robot: a essere raccontate sono le vicende di un proletario del XXI secolo le cui straordinarie capacità informatiche sono soffocate e sostanzialmente sacrificate sull’altare del profitto di pochi. Mr. Robot parla quindi di noi, della maggioranza, ossia di tutti coloro che per sopravvivere devono reprimere i propri desideri e sprecare le proprie intelligenze, oltre che il proprio tempo, a tutela dei privilegi di una minoranza di ricchi, legame che si fa palese grazie alla tecnica della voce fuori campo che spesso si rivolge direttamente allo spettatore (“Hi, friend.”). Elliot Alderson sembra dirci, in questi casi: «Ehi, tu che stai guardando, questa non è la mia storia di finzione, questa è la tua storia, il tuo mondo».
Ma Mr. Robot fa qualcosa di più, compie il salto che nessuno finora aveva osato neppure immaginare: mostrare la Rivoluzione. La Rivoluzione, qui, non è semplicemente immaginata, desiderata, rivendicata, non è rimossa né annacquata; la Rivoluzione si compie, ed è per questo che ci sarà sempre un prima e un dopo Mr. Robot.
La questione distributiva
La condizione esistenziale di Elliot Alderson è la nostra condizione. Una condizione contrassegnata da una penetrazione della logica capitalistica nelle nostre vite, il che fa del capitalismo la causa primordiale di ogni male che affligge la nostra società. Il primo problema che balza agli occhi dalla visione della serie di Esmail è direttamente quello materiale, ergo della distribuzione della ricchezza nel capitalismo globale.
Similmente alla Gotham di Joker, la New York di Mr. Robot è una metropoli attraversata in lungo e in largo dalle diseguaglianze sociali e dalla criminalità. In tale contesto l’obiettivo del giovane hacker diviene presto la distruzione della E-Corp, colosso dietro il quale si nasconde in realtà “l’un per cento dell’un per cento che gioca a fare Dio” e che Elliot riuscirà ad individuare solo dopo un percorso travagliato.
La storia di Mr. Robot è, in effetti, anche la storia di un fallimento, il quale però crea le premesse per il successo che verrà dopo. È la storia di un’avanguardia di hacker rivoluzionari che riesce a tornare sui propri passi, a riconoscere gli errori tattici commessi senza abbandonare i propri ideali e senza perdere di vista i propri obiettivi, fortificandosi in vista della nuova battaglia a venire. Un monito, se vogliamo, per la sinistra odierna, sempre più incapace di imparare dai propri fallimenti, preferendo rifugiarsi o nel settarismo autoreferenziale o nel più bieco opportunismo.
La capacità di Elliot Alderson di mettere sempre in discussione se stesso e le proprie azioni è alla base della sua attenta e lucida analisi del reale affiancata da una solida visione del futuro, oltre alla capacità di giocare d’anticipo rispetto al nemico evitando di trasformarsi in un facile e inconsapevole strumento nelle sue mani: precisamente quanto serve ad Elliot per abbatterlo attraverso un nuovo hackeraggio che darà vita a quella che Darlene, sorella di Elliot e figura fondamentale nella sua vita, definirà a ragione “la più grande redistribuzione della ricchezza della storia”. Questa volta, difatti, l’hackeraggio non si riduce ad una semplice cancellazione del debito, ma realizza un effettivo passaggio di denaro da uno sparuto gruppo di privilegiati e corrotti alla maggioranza della popolazione – quel 99% che, riprendendo la retorica di Occupy, ricorre spesso nei dialoghi della serie – approfittando a tal fine della tecnologia Bitcoin, legalizzata dal governo americano per far fronte alla crisi economica causata dal primo hackeraggio e sganciata dal dollaro, che permetterà di rendere irreversibile l’operazione. È evidente, in questo passaggio, il salto di qualità della Rivoluzione di Mr. Robot. Un sovversivismo ingenuo, impulsivo, inconsciamente (auto)distruttivo, lascia qui il posto alla sapiente e lungimirante preparazione di un attacco al sistema che però è tale da creare i presupposti per la trasformazione dell’esistente.
Se la mera lotta all’ingiustizia distributiva non è l’orizzonte ultimo cui una politica anticapitalista deve tendere, tuttavia rimane ancora, forse più che in passato, il punto di leva cruciale per rovesciare i rapporti di forza interni all’attuale ordine sociale. Viviamo nell’epoca della più alta concentrazione di capitale nelle mani di pochissimi, mentre il lavoro (visibile e non) tende a socializzarsi ulteriormente e la creazione di valore è letteralmente sotterranea ad ogni nostro gesto e momento di vita; grazie all’avvento di internet l’accesso all’informazione tende ad allargarsi e tuttavia rimane vincolato ai diritti di proprietà che inoltre lo limitano: insomma, la contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali pare aver quasi raggiunto la sua acme, e in tutto ciò combattere per una vera redistribuzione della ricchezza può costituire un primo passo per un cambiamento radicale dell’esistente. Mr. Robot induce a ripensare innanzitutto all’importanza di una nuova lotta salariale globale, primo strumento utile a redistribuire ricchezza e potere dai profitti ai salari, quindi dal capitale al lavoro, ma altresì all’implementazione di un reddito di base universale, quale mezzo fondamentale per la tanto agognata libertà dal bisogno, affrancandoci dal ricatto del lavoro salariato.
Quest’ultima considerazione rende necessario aprire le porte al vero protagonista di Mr. Robot: sua maestà il tempo.
Tempo, identità, malattia mentale: il capitalismo è ovunque
Che si tratti di ciò che accade nel finale della serie, oppure, più realisticamente, di un reddito di base universale incondizionato, l’effetto più importante così generato è indubbiamente quello di liberare tempo di vita, sottraendolo al lavoro e alle logiche di accumulazione capitalistica. Dobbiamo intenderci una volta per tutte su un punto: spendere la quasi totalità della nostra breve esistenza lavorando per garantire il profitto dei capitalisti non è vita (senza voler tralasciare anche i condizionamenti “sovrastrutturali”: famiglia, religione, morale, sessualità). Per sopravvivere noi vendiamo non semplicemente la nostra forza-lavoro, ma – tanto più nel postfordismo – il nostro tempo. La sensazione, che spesso possiamo avere, di vivere la vita di qualcun altro, la frustrazione che ci fa esclamare interiormente “Questo non è il mio Tempo!” – tempo con la ‘T’, inteso appunto come (progetto di) vita – non sono affatto casuali né infondate; sono, piuttosto, la conseguente reazione emotiva ad un banale quanto inquietante dato di fatto: il nostro tempo, dunque la nostra vita, non ci appartengono.
Dinnanzi a questo problema vi sono due possibili risposte, il che rimanda al rapporto che in Mr. Robot intercorre tra Elliot e Whiterose il quale ultimo, non a caso, è letteralmente ossessionato dallo scorrere delle lancette, fino a sviluppare una sorta di feticismo cronofago. Inoltre, come spiegherò meglio più avanti, la questione del tempo (nel capitalismo) è strettamente intrecciata a quelle dell’identità individuale e della malattia mentale.
Sia Elliot che Whiterose sono due oppositori del sistema. Il potente ministro cinese ha infatti creato una società segreta con l’obiettivo di finanziare il suo progetto personale finalizzato alla realizzazione di un marchingegno nucleare che, nelle sue fantasie, consentirebbe all’uomo di viaggiare attraverso universi paralleli, così da trovare quello giusto per sé e sfuggire ad una tempolinea ingiusta e crudele. L’evento scatenante la follia di Whiterose è il suicidio del suo giovane amante – in procinto di sposare la donna che il padre aveva scelto per lui – che lo trasformerà in una spietata macchina da guerra, un uomo pronto a tutto pur di vendicare il proprio grande amore e “raggiungerlo” nel “nuovo mondo”, dove finalmente entrambi potranno amarsi liberamente, al riparo da ogni pregiudizio e dall’egoismo umano. Whiterose, dunque, rigetta il mondo in cui vive, capisce che esso è profondamente malato, ma compie la scelta di assecondarne le regole fino alle sue estreme conseguenze nel tentativo di distruggerlo dall’interno, abbandonandosi alla fede cieca in quella che è una pura e semplice illusione sul cui altare saranno sacrificate migliaia di vite. In tutto questo, a ben vedere, è implicita la sua convinzione che nel nostro mondo il male sia inevitabile e che nessun cambiamento sia possibile, ragion per cui non resta che affidarsi a una superstizione spacciata per scienza, a una fantasia autodistruttiva. Ne è un’ulteriore prova il fatto che insabbi di continuo, insieme alle sue reali intenzioni, la sua identità di genere.
Per tale via, egli finisce per feticizzare il cambiamento che non crede possibile – cosa che gli permette di continuare a dare un senso alla sua vita – e proprio perché non lo ritiene possibile lo identifica addirittura con una fantomatica realtà parallela. A dispetto della sua opposizione al sistema, cos’è, questo, se non il trionfo del realismo capitalista? In fin dei conti, al di là del suo potenziale autodistruttivo, la posizione di Whiterose si traduce sostanzialmente in un’autoestraniazione da cui deriva una proiezione all’esterno di quella Rivoluzione che lo stesso Whiterose non considera realizzabile nella “tempolinea” attuale. Quanto basta per provocare una scissione tra cielo e terra, che sfocia agevolmente in una scissione d’identità, quell’identità che Whiterose cerca sempre di occultare, diffidente com’è nei confronti di chiunque lo circondi.
Una delle cose che il capitalismo è più in grado di pregiudicare è proprio la costruzione dell’identità del soggetto. Ciascuno di noi è quotidianamente sottoposto a pressioni, condizionamenti, spinte “gentili” che ci inducono ad indossare le maschere di volta in volta ritenute più adatte al contesto in cui ci si ritrova, fino alla produzione di un vero e proprio codice di comportamento dietro cui si nasconde in realtà la necessità storica del sistema di continuare ad esistere, il che non sarebbe possibile, appunto, senza la nostra partecipazione, anche se involontaria o inconsapevole. I problemi creati dal capitalismo in tale ambito possono facilmente degenerare fino a strutturarsi in forme croniche di dissociazione della personalità, il che conduce dritti alla questione della malattia mentale, il cui legame col capitalismo stesso è ben evidenziato sempre da Mark Fisher. «Da questo punto di vista, se la schizofrenia è – come ricordano Deleuze e Guattari – la condizione che segna il limite esterno del capitalismo, allora il disturbo bipolare è la malattia mentale che del capitalismo segna l’“interno”. Di più: coi suoi incessanti cicli di espansione e crisi, è il capitalismo stesso a essere profondamente e irriducibilmente bipolare, periodicamente oscillante tra stati di eccitazione incontrollata (l’esuberanza irrazionale delle “bolle”) e crolli depressivi (l’espressione “depressione economica” non è evidentemente casuale)». Che Esmail abbia letto o meno Fisher e/o Deleuze, quel che è certo è che il suo Elliot Alderson è la perfetta rappresentazione del connubio tra capitalismo postfordista e disturbo bipolare. Quello di Elliot è più precisamente un disturbo dissociativo dell’identità che, d’altra parte, non solo non ostacola le sue ambizioni rivoluzionarie, ma si rivela paradossalmente un suo punto di forza nella lotta al sistema. Come si apprende dalle ultime scene di un sublime finale di serie, l’hacker anarchico che ha sferrato il più potente attacco della storia al capitalismo non è il vero Elliot Alderson, ma un’altra personalità (“The Mastermind”) creata per difendersi dal mondo esterno e che ha finito per assumere il controllo, relegando Elliot in una tranquilla realtà immaginaria molto somigliante ad una sorta di improbabile capitalismo “etico”, nell’attesa che la Rivoluzione si compia ed egli sia pronto a tornare di nuovo nel mondo reale. In altre parole, Elliot non ha semplicemente sviluppato una nuova personalità come forma di autodifesa, ma le ha dato campo libero, l’ha fatta pienamente emergere per trasformare radicalmente la realtà in cui si sentiva estraneo, accantonando ogni palliativo teologico. Proprio in questo sta la differenza tra Elliot/The Mastermind e Whiterose: nel bel mezzo del peggior darwinismo sociale, laddove il capitalismo è letteralmente ovunque, per il secondo la rivoluzione e il suo tempo è in un altrove, mentre per il primo è qui e ora. La risposta di Whiterose al cancro capitalista è essenzialmente religiosa, quella di Elliot è eminentemente politica.
Realtà, immaginazione, futuro: la Rivoluzione è ovunque
Una serie come Mr. Robot ci stimola a riflettere sul rapporto tra realtà e immaginazione, presente e futuro, conservazione e rivoluzione. Nell’affrontare le implicazioni di questo rapporto, la prospettiva offerta da Mr. Robot ha ancora nella questione dell’identità non solo un elemento cruciale, ma la sua chiave di volta. A differenza di Whiterose che reprime il suo vero essere nella vana speranza di poterlo manifestare in un mondo parallelo, Elliot Alderson, proprio attraverso la creazione di personalità multiple – su tutte, quella dell’hacker – finisce per esprimere tutto se stesso, lasciandone fluire il potenziale nascosto. Come afferma The Mastermind in una delle scene finali della serie prima di “restituire” il controllo al vero Elliot, «noi [le diverse personalità create da Elliot] siamo la sua parte più vera, perché quella che si è palesata». L’insofferenza, la rabbia, la sete di giustizia che la cruda realtà genera in Elliot portano direttamente alla sua contraddizione personale, la quale però non esplode fino a distruggerlo, ma retroagisce sulla contraddizione originale che l’ha prodotta, quella capitalista, trovando una sintesi finale e catartica. Elliot Alderson non si limita ad una mera negazione della realtà o ad una fuga da essa – con tutte le conseguenze che vi sarebbero in termini di alienazione – né si lascia andare ad una rassegnata accettazione dell’esistente; la sua è piuttosto, a tutta evidenza, un’azione concreta di trasformazione sociale, che in quanto tale proprio dalla realtà non può prescindere. Le varie parti della personalità di Elliot non determinano una disintegrazione del suo Io, ma ne ristabiliscono l’unità, e ne ristabiliscono l’unità perché individuano correttamente l’origine della frattura. Se questa risiede nella realtà, allora si tratta di cambiarla, anzi, di hackerarla, il che è possibile solo tramite la Rivoluzione. Quest’ultima evoca il rapporto tra realtà e immaginazione, nonché tra presente e futuro, rapporto che Mr. Robot presenta come essenzialmente dialettico. Se il presente in cui viviamo in qualche modo può incidere sul nostro immaginario futuro, compreso il caso in cui conduca a una sua atrofizzazione, a sua volta quest’ultimo può incidere sul presente, innescando dei meccanismi di rovesciamento concreto del reale. Il futuro non è una fantasia astratta, non è una “tempolinea”, ma una forza ideale e materiale in grado di incidere direttamente sul presente, è il vero motore della Rivoluzione dentro e fuori di noi. Il vantaggio del futuro è che, una volta “palesatosi” agli occhi di coloro che intendono realizzarlo, finisce per orientarne quasi automaticamente le azioni, modificando il corso della Storia (esattamente come un’iperstizione, vale a dire una profezia che si autoavvera). È la visione del futuro a spingere Elliot Alderson a mettersi in gioco per salvare se stesso e il mondo, radicandosi a tal punto in lui da fargli creare una nuova personalità.
Dall’importanza di riscoprire il potenziale liberatorio della tecnologia a quella di una solidarietà fraterna tra gli ultimi), Mr. Robot offre parecchi spunti per una politica di emancipazione, ma probabilmente il tema del futuro è quello più interessante da questo punto di vista. La mancanza di immaginari futuri che abbiano al centro la liberazione degli esseri umani dal giogo capitalista è tangibile, oltre che nell’arte, soprattutto nelle narrazioni politiche attuali, sia quelle dominanti sia quelle teoricamente alternative, le quali si riducono spesso ad una sterile opposizione ai temi dell’avversario, cui viene concesso di dettare l’agenda nel dibattito pubblico, o tutt’al più ad una mera riproposizione di vecchie ricette non più all’altezza delle sfide del XXI secolo. Se il “futuro” è in bocca a tanti, vecchi e “nuovi” politicanti in primis, questo è invero il futuro che le classi dominanti immaginano per noi, cioè per se stessi. Parafrasando il Marx di Raoul Peck, quando i borghesi parlano del futuro, è del loro futuro che stanno parlando, non del nostro. Mr. Robot ci mostra allora l’urgenza di riappropriarci del futuro – un futuro fatto su misura della maggioranza della popolazione schiacciata dal dominio del Capitale – e insieme ad essa la necessità e la fattibilità di un suo “hackeraggio”. Essere riusciti in tale rappresentazione, per di più sfidando le logiche utilitaristico-consumistiche vigenti nel panorama della serialità, fa dell’opera di Sam Esmail, probabilmente, la serie più importante del nostro tempo.
Ma cos’è davvero la Rivoluzione? Elliot Alderson si interroga e ci interroga su questo. «Ho sempre pensato che per cambiare il mondo bisognasse agire concretamente, ma forse non è solo questo. Forse per cambiare davvero le cose occorre essere, essere noi stessi, non aver paura della propria diversità», osserva Elliot/The Mastermind nel suo monologo finale. Il concetto di Rivoluzione sociale è qui strettamente legato a quello di Rivoluzione interiore. La prima vera azione rivoluzionaria, suggerisce l’hacker, è l’affermazione di se stessi. Tale affermazione è resa possibile, nel caso di specie, dal manifestarsi di tutte le sfaccettature della personalità del protagonista, le quali, lungi dall’esasperarne la frammentazione psichica, trovano una ratio unitaria nella battaglia per l’obiettivo finale (la Rivoluzione), che se da una parte passa dall’affermazione di sé, dall’altra, a sua volta, alimenta quest’ultima in un perpetuo rapporto dialettico. «Saremo sempre una parte di Elliot ed Elliot è cambiato con noi», dirà, ancora, il suo alter ego rivoluzionario. Elliot è cambiato, o più probabilmente è diventato se stesso.
In tal senso, la Rivoluzione si pone quale processo di costruzione continua della soggettività. Noi non siamo altro che ciò che ci manca, ad ogni istante, per essere noi stessi e la lotta quotidiana per colmare questo vuoto, ci dice Esmail, è lo strumento principale per realizzare quel cambiamento interiore che è al contempo causa ed effetto del cambiamento sociale.
Il merito di Mr. Robot, in definitiva, è quello di accompagnare la rappresentazione molto fedele e attuale del nostro sistema sociale ed economico a quella di un effettivo, benché primordiale rovesciamento; merito ulteriore averlo fatto partendo dal punto di vista di uno dei tanti “invisibili” della società.
Mostrandoci l’odierno capitalismo per quel che è – una sorta di mostro predatorio che divora spazio, tempo, futuro e psiche – Esmail ci mostra parimenti la soluzione: se il primo è ovunque, anche la Rivoluzione è ovunque. L’onnipervasività del capitale, da suo punto di forza, nella visione di Esmail si trasforma in sua debolezza: aumenta il suo raggio di estensione, ma con ciò aumentano le crepe del sistema, quindi la sua vulnerabilità. In fondo, il sistema di reale non ha nulla, se non la sua necessità di mantenersi in vita proprio grazie alla repressione eteroindotta dei propri bisogni e desideri reali, che si traduce poi in un annichilimento della propria dignità. Sotto questo aspetto, il presente e il futuro diventano dei terreni di lotta costante per la propria libertà, tali da occupare anche il più piccolo punto del nostro spaziotempo. Ne consegue che anche il più apparentemente innocuo o inaspettato attacco all’attuale ordine egemonico può dischiudere il varco per il più grande cambiamento dell’umanità. Del resto, Mr. Robot non fa altro che ridicolizzare la presunta indistruttibilità di quest’ordine, ricordandoci – riprendendo le parole di Rosa Luxemburg – che esso “è costruito sulla sabbia”.