Che cos’è la resilienza?
Intervista di Athena Pagnozzi e Greta Salvetti ad Alessandro Melis
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Domanda: Cosa è la resilienza urbana?
Risposta: La resilienza è la capacità degli organismi di rispondere positivamente ai cambiamenti, intesi come combinazione dell’azione dei loro predecessori e dell’ambiente.
Forse il modo più semplice per descriverla è ricorrendo al principio della “costruzione di nicchia” espresso per la prima volta dal biologo evoluzionista Kevin Laland. La costruzione di nicchia è il processo mediante il quale gli organismi modificano il proprio habitat. Queste alterazioni dell’ambiente contribuiscono, a loro volta, all’aumento della pressione evolutiva sulle generazioni successive degli stessi organismi. La resilienza ci dice, quindi, che la realtà che ci circonda non è statica, ma neanche progressiva È fluttuante e dominata dalle componenti fisiche e chimiche, animali e inanimate che caratterizzano la biosfera, in cui ognuno di questi soggetti ha un ruolo attivo.
Fino ad oggi queste fluttuazioni nella costruzione del nostro habitat sono state considerate dei semplici rumori di fondo e per centinaia, forse migliaia di anni, ha prevalso l’idea della stabilità delle condizioni ambientali in un dato contesto geografico. Da oggi in poi, invece, non cambiare implica solo il peggio.
D: Ma in concreto quali sono i meccanismi che gli organismi utilizzano per essere resilienti rispetto alle pressioni ambientali? E questi come si riflettono nell’architettura?
R: La resilienza degli organismi dipende essenzialmente da variabilità, diversità e ridondanza delle sue strutture.
Per esempio, la città moderna mostra i suoi limiti di fronte al cambiamento ambientale perché la specializzazione ostacola la capacità di resilienza. Non sorprende che la città storica italiana funzioni meglio delle periferie del dopoguerra per quanto riguarda fenomeni di feedback come l’isola di calore urbano.
D: Che differenza c’è tra resilienza e sostenibilità?
R: La resilienza è un ampliamento del concetto della sostenibilità. Nella sua definizione classica, la sostenibilità non tiene in conto che il modo in cui noi costruiamo le città non possa essere intrinsecamente ecologico e quindi capace di rispondere positivamente ai cambiamenti. Detto più semplicemente, la sostenibilità è spesso interpretata come la riduzione di un danno, comunque inevitabile, senza che si metta in discussione il fatto che quello che costruiamo debba per forza danneggiare l’ambiente o limitarne le risorse.
D: Quindi, secondo te, una città intrinsecamente ecologica è possibile? Da cosa dobbiamo partire per realizzarla?
R: Dalla transdisciplinarità e dalla politica.
Nel primo caso l’epistemologia ci insegna che i pregiudizi vengono veicolati dalle correnti tassonomie. Il nemico principale è la reificazione, cioè il processo mentale attraverso cui abbiamo convertito in dogma le astrazioni della teoria dell’architettura degli ultimi duemila anni, allo stesso tempo marginalizzando fatti concreti.
Per quanto riguarda la politica dobbiamo ricordare che la crisi attuale è il risultato del cannibalismo sociale e delle risorse di una singola specie. Anche la parola Antropocene è un arrogante eufemismo per descrivere il modo in cui un terzo dell’umanità trasferisce le conseguenze della propria avidità ai restanti due terzi della popolazione. In una loro recente pubblicazione, anche Agatino Rizzo e Anindita Madal ci ricordano che siamo in prima linea in una guerra contro le forze inerziali e conservatrici delle società globali. Lo scontro si consuma oggi attraverso i mezzi di comunicazione di massa che si nutrono di termini usati come slogan e richiamo all’ordine.
D: A proposito di comunicazione, cosa ne pensi dell’insofferenza da parte di alcuni nei confronti della parola resilienza?
R: Gli architetti sono più resistenti ai cambiamenti tassonomici rispetto ad altre categorie di ricercatori. C’è più cautela, ad esempio, nella fisica, nell’affermare che la “materia oscura” sia una definizione abusata solo perché se ne parla spesso da quando ci si è accorti dell’accelerazione nell’espansione dell’universo. In architettura, invece, i termini vengono risucchiati dalla comunicazione di massa e si consumano nonostante le crisi ambientali siano ben lontane dall’essere comprese e risolte.
Anche se la parola “resilienza urbana” non ci piace, ricordiamoci che è un termine con precise connotazioni nella ricerca scientifica sull’ecologia ambientale. Dobbiamo trasformare le nostre città in sistemi capaci di rispondere positivamente al cambiamento progressivo del clima e, allo stesso tempo, assorbire la forza d’urto dei fenomeni di feedback, comprese le manifestazioni estreme del clima. Conterà sempre di più la fluidodinamica e meno la scienza delle costruzioni. Se alla stessa definizione vogliamo dare un nome diverso, benissimo, basta mettersi d’accordo.
Occorre però anche dire che un rischio, nella cristallizzazione delle definizioni, ci possa essere.
La velocità e il ruolo predatorio e sottile del capitalismo contemporaneo non giocano a favore della decantazione. Le definizioni possano essere svuotate di significato e usate come feticcio da parte dei sostenitori del neoliberismo, capaci di trasformazioni imprevedibili e paradossali.
La comunicazione di massa ha inesorabilmente inghiottito, digerito e rigurgitato ogni definizione in tempi brevissimi rispetto alla ricerca. E a volte ha distorto il significato delle parole trasformando, per esempio, la sostenibilità in green-washing. Bisogna sempre entrare nel merito delle questioni e della loro complessità. Le semplificazioni in questo senso non aiutano.
D: E di chi sostiene che invece di resilienza si dovrebbe parlare di resistenza?
R: Capisco le ragioni, anche emotive, ma resistenza, che è una parola che anche io amo usare quando si tratta di questioni legate alla storia e alla politica, in ecologia vuol dire altro. Descrive proprio l’approccio convenzionale, utilizzato fino ad oggi, che è all’origine del problema. La massa artificiale usata per resistere, rigidamente, alle forze esterne (alluvioni, terremoti e uragani), ha superato oggi la biomassa. La convinzione che ci trovassimo al di fuori degli equilibri ecosistemici e che dovessimo resistere è proprio la causa del problema.