La lettera scarlatta
La cosa che più colpiva in quel vestito e in tutto l’aspetto della bimba, era una strana e irresistibile somiglianza col simbolo che Hester era obbligata a portare sul petto: era come se la lettera scarlatta avesse assunto un altro aspetto e camminasse al fianco della donna. […] quasi che la rossa ignominia si fosse impressa nel suo cervello e modellasse su di sé tutti i suoi pensieri; molte ore di dolorosa voluttà aveva impiegato per creare un’analogia fra l’oggetto del suo affetto e l’emblema della sua colpa e della sua tortura. Ma Pearl era per lei l’una e l’altra cosa nello stesso tempo, e appunto questa identità aveva spinto Hester a fare della figlia la personificazione della lettera scarlatta
La lettera scarlatta, Nathaniel Hawthorne
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Di recente, anche l’Ordine degli architetti di Cagliari ha riconosciuto per le professioniste che operano nel settore dell’architettura la possibilità di richiedere un timbro con la declinazione al femminile del termine “architetto”. È quindi da ora possibile – ma non obbligatorio – firmarsi come “architetta” nei documenti ufficiali, aderendo a una “buona pratica” già avviata dall’Ordine professionale di Bergamo, Roma, Torino, Milano, Modena, Treviso e Udine, e sostenuta dall’associazione no-profit RebelArchitette.
Questa notizia ha riaperto il dibattito riguardo la “necessità” o la “correttezza” della declinazione al femminile della professione: perché dovrebbe essere rilevante introdurre una nuova declinazione, quando oramai la figura professionale delle architette è riconosciuta a prescindere dal fatto che il termine che le definisce sia declinato solo al maschile? Perché una donna che opera nel settore dell’architettura dovrebbe preoccuparsi di richiedere un timbro che la descriva oltre che nella sua professione, anche nel suo genere? E perché una questione di genere dovrebbe, a maggior ragione, essere presa in considerazione anche laddove una donna si senta già riconosciuta dai colleghi uomini nel suo statuto di professionista grazie alla sua competenza e non per il fatto di essere una donna?
Molti colleghi e colleghe che operano nel settore dell’architettura nel corso del dibattito che si è (ri)aperto hanno tentato di rispondere a domande simili a queste. La maggior parte delle considerazioni che sono state fatte, purtroppo, avevano toni per lo più sarcastici, quando non addirittura indignati per un simile evento. Sono stata sorpresa di leggere questi pareri, quasi come se l’aggiunta di questa “a”, per identificare la professione dell’architetto quando esercitata da donne, fosse un’onta, un insulto alla dignità delle professioniste competenti, una retorica femminista spicciola non meritevole della giusta attenzione, per di più cacofonica e quindi brutta, oltre che inutile. Una “lettera scarlatta” che se indossata attira sguardi interrogatori, risate sarcastiche e doppi sensi puerili. Ciò mi ha portata a riflettere su come fosse necessario mettere in luce l’importanza di un’operazione linguistica di questo tipo e di operazioni linguistiche similari.
Mi sono così sforzata di fare un’analisi per cercare di dimostrare perché l’aggiunta di una semplice A non rappresenti un puro esercizio di stile o di chirurgia estetica superficiale. Ho voluto scrivere questo articolo per spiegare anche alle mie colleghe perché dal mio punto di vista, di donna e di architetta, porre l’attenzione sulle declinazioni di genere, in questo caso nell’ambito professionale, rappresenti una questione tutt’altro che secondaria e marginale.
Se infatti la lingua può essere semplificata in un insieme di convenzioni adottate da un corpo sociale per consentire la comunicazione e comprensione intersoggettiva, il fatto che spesso sia la declinazione al maschile a essere predominante dovrebbe quanto meno sollevare delle domande sulla possibilità che quel corpo sociale resti profondamente – anche se subliminalmente – radicato in stereotipi patriarcali legati al genere. Ci si dovrebbe chiedere se anche attraverso l’adozione di termini per la maggior parte maschili per descrivere persone che non si riconoscono in quel genere non ci si renda inconsapevolmente complici di un appiattimento sessista, nel momento in cui l’enfasi sulla dicotomia culturale tra “maschio” e “femmina” viene in apparenza risolta con la riduzione di molti termini al maschile.
Opporsi a una possibile evoluzione linguistica è sintomo di una chiave di lettura eccessivamente identitaria, che tende a ridurre la lingua al suo surrogato grottesco e atrofizzato, piuttosto che concepirla per quello che è, ossia un fenomeno inserito all’interno di processi di complessità e di performatività con il reale. La si riduce ad una questione di “semplici parole”, incorrendo nell’ingenuità di credere che le parole di per sé siano banali.
Non sorprende dunque constatare che chi aderisce a un’interpretazione riduzionista di questo tipo eviti di problematizzare in maniera critica l’argomento e preferisca riassumere il tutto attraverso slogan più o meno goliardici come “La lingua italiana non si tocca”, “La parola architetta è cacofonica”, “Sembra la storia di petaloso”, “Esiste già l’abbrevizione architè che risolve il problema”, “All’architetta piace l’architrave”, “Non userei mai il termine architetta perché finisce con -tetta e fa ridere”, “Propongo architetto 1 e architetto 2 per risolvere il problema” e così via.
Vi sono anche coloro che, in maniera provocatoria, hanno voluto prendere il termine “geometra” come metro di paragone a supporto di questa ipotetica crociata anti-architetta, affermando quanto a questo punto bisognerebbe dire “geometro”. Oltretutto, rivelando anche di non capire alcune questioni linguistiche di fondo: alcuni termini italiani usati per descrivere le professioni, pur finendo con la “a”, sono in realtà neutri e geometra è uno di questi. Geometra, così come giornalista, sono sostantivi sia maschili che femminili. Il termine “architetto”, invece, è un sostantivo di genere solo maschile. E basterebbe consultare un vocabolario per rendersene conto e per capire come mai non ci si è mai posti il problema per la declinazione di genere in certe professioni e invece per alcune di queste, come per la professione dell’architetto, il dibattito sia ancora vivo e oggetto di fraintendimenti. Semmai si potrebbe riflettere su come nella versione plurale anche molte definizioni professionali neutre o promiscue abbiano poi una loro declinazione di genere: posso ad esempio dire “le giornaliste” o “i giornalisti”, quindi perché si ritiene secondaria la possibilità che io possa potermi riferire alle mie colleghe donne come a colleghe “architette”? Perché un sostantivo maschile utilizzato anche per professioniste che sono donne dovrebbe essere ritenuto inspiegabilmente più inclusivo?
Tutta questa banalizzazione e semplificazione non sorprende, ma resta preoccupante.
È amareggiante inoltre constatare come molto del sarcasmo derivi proprio da colleghe donne, le quali dichiarano anche con un certo orgoglio di voler rimanere rigorosamente fedeli a una parola maschile nella quale dicono di riconoscersi, ma che non le descrive affatto. È svilente vedere come reazione si inneggi a un pride dell’architetto, svuotando completamente il peso che una parola come orgoglio ha come strumento di rottura, dissacrante e necessario.
Perché dovrei essere orgogliosa di indossare una parola che non rappresenta il genere nel quale mi riconosco? Se è vero che il genere è un costrutto culturale, non biologico, per quale motivo dovrei accettare che la maggioranza dei termini descrittivi in italiano abbia una forte prevalenza del maschile? Perché tutto questo dovrei farmelo andare bene “solo” perché rientra in una consuetudine linguistica? E perché si ritiene dissacrante che ci sia la possibilità di aprirsi linguisticamente a molteplici declinazioni se non (addirittura!) alla possibilità di avere un genere neutro che sia più inclusivo?
L’importanza di una lingua che sia in grado di essere aperta anche agli altri generi non è una questione formale, ma è anche e soprattutto una questione di sostanza. Basarsi sul dato che storicamente una professione sia sempre stata declinata nella sua accezione al maschile e che, nonostante questo, le donne siano riuscite a ritagliarsi una loro credibilità all’interno di quel settore, palesa già in essere un vizio di fondo. L’utilizzo della preposizione nonostante nella comunicazione linguistica ha “valore avversativo e introduce l’enunciazione di un fatto che avrebbe potuto o dovuto impedire qualche cosa e tuttavia non l’ha impedito o non l’impedisce”, giusto per citare la definizione data da Treccani.
Non è nascondendoci dietro all’illusione che solo perché siamo riuscite a conquistarci delle posizioni professionali nonostante tutto, grazie alle nostre competenze sul campo, allora possiamo considerare il problema di genere superato. Per quale motivo conquistare la possibilità di avere una parola che ci descriva nel nostro genere anche attraverso la professione che pratichiamo, deve essere ritenuto superfluo o secondario rispetto al raggiungimento della parità?
Una delle prime azioni pratiche che una persona possa compiere per il raggiungimento della parità passa proprio attraverso il modo di esprimersi, che non è affatto un qualcosa meno concreta del corpo che anche attraverso quel linguaggio trova una sua definizione. Con le pratiche discorsive non enunciamo e basta, ma agiamo materialmente sul mondo. Non facciamo quindi riferimento a condizioni fenomenologiche e trascendentali, il linguaggio è una questione ontologica. Le pratiche discorsive sono immanenti, effettive, situate e, oltre a descrivere un soggetto, hanno il potere di far sì che quel soggetto sia agito, che esista e che possa innescare meccanismi di interferenza, di riconfigurazione e un fare e disfare continuo del reale.