Incidente in superstrada al gusto di diossina
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1
Notte di luglio. La superstrada è un deserto nero affogato nell’afa estiva del tavoliere delle Puglie. L’asfalto si estende come una crosta purulenta e secca, incastrato in guardrail ossei e arrugginiti, cotti, fino a qualche ora fa, dal sole autoritario e spietato.
L’aria è appena più respirabile che di giorno. Ma quando ci si avvicina alla città i fumi dell’industria fanno incetta delle molecole di ossigeno e le sostituiscono, senza alcuna remora, con quelle di diossina.
Antonio sta rientrando dopo aver fatto il giro di consegne in lungo e in largo nella provincia nord. Come ogni sera riconosce in quell’odore nauseabondo l’aria di casa, così come ogni mattina le inveisce contro, ripromettendosi di dover fuggire, prima o poi, da quell’orribile contesto degradato e degradante.
Se lo dice da anni ormai. Non ci crede più.
I primi bastioni dell’industria distano ancora chilometri, ma già una cappa di anidride carbonica e diossina ha iniziato ad abbracciarlo. Una paura insolita lo attanaglia, un panico ingiustificato.
La testa inizia a girare. Il corpo reagisce al niente, come se fosse in allerta per qualcosa di invisibile.
I suoi occhi puntano verso lo specchietto retrovisore. Cercano. Sono più disperati che spaventati.
Dietro di lui non c’è nulla. Nessun veicolo, niente di niente. Solo l’oceano di asfalto.
La sensazione di essere solo, immerso nel nero, in groppa a quello scheletro di mostro marino che è la statale, lo agita.
Si sente come l’unico uomo sulla Terra. Solo, disperso, confinato in una dimensione buia e senza limiti, lontana dal mondo. A fargli compagnia solo un programma radiofonico notturno, il suo preferito. Musica jazz. Ma neanche quello lo tranquillizza.
Il rumore della carrozzeria è uno schianto. Una buca, una nuova, a lui sconosciuta. Per un momento teme di aver bucato, o peggio ancora di aver rotto il semiasse dell’auto aziendale.
Bestemmia. Abbassa il volume della radio alla ricerca di qualche rumore fuori posto. Nulla. Sembra tutto in ordine, almeno all’udito.
Allunga le dita verso lo stereo, ma le ritira immediatamente. L’ansia non accenna a diminuire. Gli occhi continuano a cercare qualcosa nello specchietto retrovisore. Un’ossessione, forse.
Socchiude le palpebre, come per mettere a fuoco. Porta un poco avanti il volto. Ma nel riflesso non c’è che il nero della notte. Il vortice dei suoi pensieri è però ormai avviato.
Continua a ripetersi: eppure qualcosa ci deve essere in quell’abisso senza luce… I mostri.
I mostri.
Sulla destra appare la luce di un autogrill. La colonnina di benzina e il piccolo bar adiacente sono un’ancora di salvezza in quel principio di delirio. Antonio è grato a non si sa quale dio per averlo risparmiato da quello che ora gli sembra solo un affaticamento naturale dopo una lunga giornata di lavoro. Il prequel a un colpo di sonno bello e buono.
Sorride. Inserisce la freccia. L’auto rallenta e si ferma nell’ampio parcheggio.
Antonio scende dalla macchina. Viene preso dalle convulsioni. Ha una visione. Un enorme incidente, il fumo nella notte, l’aria schiarita solo dal riflesso arancione e vivido del fuoco, una interminabile coda di automobili ferme. Sirene della polizia tutt’intorno si uniscono in coro, senza imbarazzo, alle urla disumane; l’eco meccanica delle grida della gente coinvolta nell’incidente. Volti coperti di sangue. Un bambino seduto sul ciglio della strada, solo, in silenzio, con lo sguardo nel vuoto e il volto annerito dal fumo di qualcosa andato a fuoco, le lacrime che scendono dritte lungo le guance. Un’autoambulanza. Una ragazzina su una barella piange a singhiozzi. Gli occhi chiusi di lei. Il frastuono. L’aria soffocante. Ancora più soffocante di quella che è intorno a lui realmente.
Antonio scuote la testa, scaccia quei pensieri e si poggia all’auto, rintronato. «Dio mio».
Dentro di sé la consapevolezza che quella visione sia reale. Non un accadimento presente, né passato, ma un evento di là da venire. In un istante prende coscienza di tutta la sua vulnerabilità, di quanto sia esposto, ogni giorno, ogni secondo della sua vita, a pericoli mortali.
«È più pericoloso andare in macchina che in aereo», gli disse un suo collega durante una conversazione sul lavoro. «Rischiamo ogni cazzo di giorno».
Ma Antonio non diede peso a quelle parole, anzi controargomentò.
«Se fai un incidente lo fai. Ti può andare bene e ti può andare male. Le statistiche esistono, ma io non sono le statistiche. O sei vivo o sei morto. Voglio dire, finché non fai sto benedetto incidente», e qui prese a grattarsi nelle parti intime, «continui a campare. Quei dannati straordinari di giugno, piuttosto, quando arrivano? Altro che campare, qua se devo tirare la cinghia ancora…»
È il suo cinismo a tirarlo fuori da quel vortice di pensieri negativi, così inconsistenti da non poter essere raccolti in immagini chiare e distinte. Ancora una volta, pensa che se gli dovesse capitare di morire, potrebbe accadere ovunque, in qualsiasi momento. Una tegola in testa, una caduta per le scale, un infarto non preso in tempo e pam! i giochi sono fatti e finiti.
Perché crucciarsi sulla strada quindi?
Maledetto attacco di panico.
Antonio sembra essersi ripreso. Aspetta qualche altro secondo, poi si stacca dall’auto ed entra nel bar.
2
Saluta la ragazza che si trova dietro il bancone, sono anni che fa sempre la stessa strada, si ferma sempre nello stesso posto, eppure non sono mai andati oltre il saluto di circostanza.
«Mi fai un caffè?»
La ragazza annuisce e si volta. In pochi secondi la tazza fumante è sotto il suo naso.
«Stanco?»
La voce della barista arriva come una lama a tagliare la coltre di pensieri nella testa di Antonio. Alza la testa e sorride.
«Stanco, sì».
La ragazza ricambia il sorriso. Con la mano inizia a passare la pezza sul banco, anche se non ce n’è bisogno. «Ha sentito che puzza? Stanotte ci danno dentro con gli altoforni, pare».
«Già. Chissà se finirà mai».
«Non finirà mai».
Antonio beve. I due non parlano più. Cosa hanno in fondo da dirsi due completi estranei sulla superstrada, di notte? Sorride di nuovo, paga, saluta e si dirige verso l’uscita.
Sulla soglia dell’autogrill, la visione dell’incidente riemerge come alta marea improvvisa. La pausa è stata utile a distrarlo, ma ora si rende conto che si è trattato solo di un palliativo, una sottrazione momentanea alla spirale di terrore in cui è stato avvolto. È come se il varco che si affaccia su quel futuro esecrando si sia nuovamente riaperto. Ora si sente più uno spettatore che un attore. In uno strano fenomeno dissociativo, vaga con lo sguardo e la mente. Vola tra le lamiere intricate delle auto. Passa attraverso i corpi maciullati dei morti, tra i volti disperati e ipnotizzati dei vivi. Ode le urla vive delle persone coinvolte. L’immagine del sangue sembra volersi stampare nella sua mente.
Nella realtà è lì, fermo, un piede fuori dal piccolo bar della colonnina di benzina.
Alla ragazza dietro il bancone non sfugge quella strana immobilità – per quanto immobile si possa dire un corpo vivo.
«Tutto bene, signore?»
La voce della ragazza non riesce a riportarlo indietro dal viaggio che il suo cervello gli sta regalando, in un totale ribaltamento sensoriale della realtà. Antonio trema. Come un bambino che, di notte, nella camera buia, costruisce pensieri paurosi e in quegli attimi di terrore riesce a fare solamente una cosa: ansimare.
Il volto della ragazza si contrae. Normalmente, a quell’ora della notte, non si allontanerebbe dal bancone. Lavorando da sola, in un bar spesso deserto come in quel momento, una telecamera a circuito chiuso monitora costantemente la zona adibita al servizio. In più un pulsante collegato a un antifurto si trova proprio sotto il ripiano della macchina del caffè. Non deve mai allontanarsi dalla sua zona di lavoro nella quale è in qualche modo protetta. Ma quell’uomo, ormai, lo conosceva. C’è una certa vicinanza. Gli occhi buoni, il sorriso gentile. Cosa c’è da temere?
Mentre gli si avvicina, lo chiama: «Signore. Sta bene?».
Ma Antonio è assorbito in sé stesso.
Poi lei lo tocca.
Nell’aria si avverte una scarica elettrica. Nulla di immaginario, nessuna proiezione della mente. Un vero e proprio scoppio che si materializza nel momento del contatto tra i due. Una luce improvvisa abbaglia la ragazza e una forza invisibile la scaglia lontana dall’uomo.
Antonio finalmente gira la testa, abbassa lo sguardo. La ragazza è distesa per terra, il viso ancora distorto dallo shock della scossa.
Antonio si sposta, cambia posizione. Si volta e si avvicina al banco frigo che è lì a due passi. Si muove come un automa. Apre lo sportello di vetro. Prende una bottiglia di birra da 66 per il collo. Con un colpo secco la rompe sullo spigolo del frigo, la birra esplode in un fiotto bianco di schiuma.
Poi Antonio si lancia sul corpo della poveretta che non ha neanche il tempo di urlare. Non è brutale. Piuttosto rapido, anzi. Un colpo secco con il coccio alla carotide e la donna ha già smesso di muoversi. Per terra liquidi di colori diversi si diluiscono tra loro.
Senza alcuna fretta Antonio esce dall’autogrill, questa volta con successo. Lascia andare il vetro che aveva in mano, risale in macchina e riprende a guidare. Ha gli occhi puntati sull’asfalto nero come la notte e come i suoi pensieri.
Qualcosa attira il suo sguardo vitreo verso destra. Un cartello blu indica la direzione e quanto manca per Taranto.
3
Antonio ora è tranquillo, eppure qualcosa non è ancora regolare nella sua percezione.
Dopo quell’agognato, detestato e sempre troppo breve weekend, lo attende una settimana di viaggi e riunioni di lavoro. L’ansia già lo attanaglia. Per lui il fine settimana è diventato, col passare del tempo, una maledizione, quasi più che il solitamente molto più dannato lunedì. C’era un tempo in cui il venerdì desiderava con tutto il cuore di terminare di lavorare. Dava gli ultimi colpi quasi come se fosse alimentato da un’energia nuova. È venerdì, nulla lo poteva fermare. Certo, non aveva molti conoscenti con cui passare quelle quarantotto ore di serenità programmata, a parte la povera madre allettata, che in ogni caso non era molto di compagnia, ma il miraggio di un po’ di riposo lo rifocillava mentalmente. Da qualche tempo, però, l’idea di quel momento libero si è trasformata in un subdolo contenitore di preoccupazioni. Il pensiero che sarebbe ritornato a lottare per la strada, con i clienti, in ufficio, contro il suo capo e i suoi colleghi, nella routine quotidiana, ha iniziato a trucidare la sua tranquillità a orologeria sin dal sabato mattina, in una sorta di proiezione dell’ombra masochistica dell’ancora lontano lunedì sul resto dei giorni ancora liberi. Il lunedì: arriva sempre troppo presto rispetto a quanto vorrebbe – e a un certo punto della sua esistenza non lo avrebbe voluto mai più.
E così, il sorriso del venerdì si è trasformato ben presto in un amaro e risentito sospiro d’angoscia. Ricominciare per ricominciare, si dice, tanto vale non interromperla mai, la tortura, tanto vale cercare di anestetizzare il tormento con la sua continua reiterazione.
Ed eccolo il venerdì, con le sue psichedeliche ritorsioni cerebrali.
«Ti aspettavo», si dice, la camicia ancora imbrattata di sangue.
Ora almeno non ha più in mente la visione dell’incidente. Ma solo l’espressione della barista carina che implora pietà senza voce. Un’immagine molto più sopportabile.
Continua a guidare tranquillo per un po’ di minuti. Alla radio passa un brano troppo contorto per i suoi gusti. Poi scorge, lontana, la parte posteriore di un’auto ferma, con le quattro frecce inserite.
Inchioda, nonostante ci sia tempo a sufficienza per rallentare e fermarsi in tutta tranquillità. Riprende la marcia. Si avvicina piano. Decine, forse centinaia di auto sono ferme in una fila lunghissima, interminabile, di cui non si vede il principio. Il disegno tracciato da quell’enorme serpente meccanico si perde nell’orizzonte scuro della superstrada.
L’auto si ferma. Antonio scende per capire meglio cosa sia accaduto, fregandosene di cosa potrebbero pensare vedendolo in quello stato, con una camicia da impiegato per metà bianca e metà rossa di sangue.
Raggiunge la macchina davanti a lui, una vecchia Tipo bianca. Si accosta al finestrino del guidatore, ma non riesce a vedere chiaramente. Con la nocca batte due colpi sulla portiera, poi riesce a mettere a fuoco. Nell’abitacolo una carcassa umana in putrefazione si volta e lo guarda con aria interrogativa.
Antonio lancia un urlo e indietreggia verso la sua auto, come qualcuno che fugge da un’animale feroce senza dargli le spalle, ma con l’ovvio costante rischio di cadere. Con foga ritrovata apre la portiera della sua macchina, si lancia all’interno e si affretta a chiudere la centralizzata.
Antonio muove la mandibola in modo scomposto. Ha appena visto uno zombie su una superstrada. «È la tensione», si dice. «Devo stare calmo. È solo lo stress».
Continua a tenere gli occhi puntati sulla Tipo. E quello che sta temendo, accade. La portiera si apre e prima una gamba, poi l’altra, poi il resto del corpo, viene fuori il morto. Antonio lo vede venire verso di lui, illuminato dai fari della sua Mondeo. I movimenti del cadavere sono naturali, forse solo un po’ lenti e claudicanti, ma al di là del volto scheletrico ricoperto di pus e vermi, l’atteggiamento di quella figura raccapricciante è del tutto umano… vivo.
Antonio si agita tutto. Ribadisce il suo comando alle sicure, che risuonano con un suono sordo, a confermare fedeltà al loro proprietario. Si fa sempre più piccolo sul sedile della vettura.
«D’accordo». La voce della salma ambulante si sente a stento attraverso il finestrino chiuso. «Siamo tutti un po’ nervosi e di certo non sarò bellissimo. Ma non mi sembra il caso di farsi prendere da una crisi isterica. Più avanti c’è un incidente piuttosto grave. Sono coinvolte una decina di auto e un tir che si è ribaltato per traverso. Trasportava materiale infiammabile e credo che a breve esploderà».
«Esploderà?», chiede Antonio balbettando.
«Non la sento. Vuole aprire il finestrino? Non la mordo mica».
Antonio si fa coraggio e apre il finestrino. Il cadavere si affaccia educatamente all’interno dell’abitacolo e un odore di carne decomposta e muffa invade in un istante i canali respiratori di Antonio facendo affiorare alla foce del suo stomaco una cena che non c’è mai stata. Riesce a trattenersi distraendo la mente da quegli effluvi, com’è solito fare con le persone che soffrono di un’alitosi controversa, e addirittura si chiede se quella puzza fetida derivi completamente dal decadimento cellulare del corpo, o se c’è comunque qualche problema di fiato cattivo a monte. Rincuorato in qualche modo dalla sua ritrovata ironia, Antonio riesce a deformare la sua bocca in una sorta di ghigno accomodante.
«Ci vorrà un po’ perché riescano a rimuoverlo», continua lo zombie. «Credo che ci toccherà passare la notte qui. Poi forse riusciranno anche a prelevare i nostri resti. Io mi sono solo un po’ bruciacchiato, a mia moglie è andata peggio, dal punto di vista estetico. È stata colpita da un oggetto metallico che ha trapassato il parabrezza come fosse stato burro e le ha perforato un occhio. Almeno non ha sofferto. Ora la cavità oculare è buia. Niente che un paio di occhiali da sole non possano sistemare.»
«Grazie», riesce a balbettare Antonio, i pugni stretti sul volante e il volto pallido che cerca di tenere il più lontano possibile dal morto. «Non… non avevo notato che sua moglie, io… mi scusi».
«Non si preoccupi, tra poco ripartiamo». Il morto gli dà una pacca sulla spalla perdendo alcuni frammenti di polpa marcia e si tira fuori dall’auto.
Antonio resta immobile. Il cadavere rientra in macchina perdendo qualche pezzo per strada. Borbotta qualcosa alla moglie, che gli risponde gesticolando in maniera vistosa, senza muovere la testa.
Poi Antonio avverte una sensazione di calore e umido che parte dalla cavità dell’orecchio destro e scende lungo il lobo. Si porta la mano in quel punto, mentre con l’altra cerca maldestramente di accendere la lucina sopra il cruscotto.
Sfrega i polpastrelli tra loro: sangue.
Perde sangue da tutta quella parte di volto. Si specchia nel retrovisore e si rende conto di essersi imbrattato anche lì. Con un fazzoletto inizia a pulirsi. Il movimento è dapprima lento, poi sempre più frenetico. Non ricorda che ne fosse uscito così tanto durante l’aggressione nell’autogrill.
Il liquido rossastro gocciola dall’orecchio sulla camicia e si va a unire alla chiazza originaria. La macchia ora non è più la mera impressione pittorica degli schizzi causati dalle pugnalate, ma si espande, con un ritmo lento e incontrovertibile, trasformando tutto il bianco del cotone in un cremisi tendente al violaceo. Antonio comprende: quel sangue è il suo.
Continua a sfregare la parte della testa tra la tempia e l’esterno dell’orecchio. Poi, mentre ancora osserva la sua espressione allucinata nello specchietto, riesce a liberarsi della camicia. Una volta a petto nudo guarda in basso l’enorme voragine che pulsa di viscere e il pezzo di lamiera che le trafigge, che attraversa il suo corpo da parte a parte.
Si tocca piano lo squarcio, ma non avverte nulla.
Sembra un automa, Antonio, con un fazzoletto completamente zuppo di sangue in una mano e con l’altra che si pungola all’altezza dello stomaco la punta di metallo circondata da ciò che avrebbe dovuto rimanere all’interno del suo apparato digerente.
Poi di nuovo alza la testa. Si guarda nello specchietto retrovisore e non vede il sé stesso di prima, ma un cranio di carne macilenta ravvolto di escoriazioni e ustioni.
Almeno il sangue ha smesso di uscire, pensa.
Con un andamento perpetuo tutta la macchina cambia aspetto. I sedili si rinsecchiscono come fossero esposti a un calore improvviso, le componenti plastiche si sciolgono in un timelapse rapidissimo. Sui vetri si disegnano ragnatele di ghiaccio e improvvisamente si infrangono con un rumore che sembra poco più che un sibilo. L’airbag esce dal volante già sgonfio. Anche la carrozzeria inizia a piegarsi su sé stessa, con un rumore e un moto da fisarmonica infernale.
Inizia a sentirsi stretto. Si fa coraggio, si districa ed esce dall’auto. Cammina verso il punto dell’incidente. Il fumo e una luce rossa e potente sovrastano l’incolonnamento delle macchine. Supera l’auto dello zombie senza voltarsi, non vuole vedere. Lo stesso fa per le altre auto. Sa che vi troverebbe solo altri morti viventi, e nella peggiore delle ipotesi ancora intenti a litigare tra loro.
L’incidente è un dipinto che ispira riverenza e ammirazione.
Le auto sono accartocciate una sull’altra. Superano la decina, anche se talvolta è impossibile discernere le carrozzerie, fuse in una fucina plutonica. Una montagna di materiale carbonifero che puzza di gomma e carne bruciata. Un’orgia meccanica. Un monumento al disastro. Un’architettura maestosa di ferro e morte e plastica e fuoco. Una piramide acherontica che ha per base il corpo martoriato di un enorme camion.
Solo un particolare di tutta quella composizione lo atterrisce veramente. Anche se ormai aveva compreso. Solo uno stupido si sarebbe ancora illuso oltre. Nel mezzo di quel cumulo di ferro intravede la carcassa violentata di una Mondeo blu come la sua, con la sua stessa targa.
Alle spalle del quadro rifulgente, lo skyline dell’industria siderurgica si staglia nero e rosso come unico testimone oculare; le nubi lattescenti che vengono fuori dall’altoforno sono l’unico indizio del tempo che passa.
Antonio resta a guardare quello spettacolo, come un bambino dinnanzi all’incommensurabile. Solo una piccola lacrima riga la geografia sconvolta del suo volto.