La smorfia della vecchietta
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Spense il motore dell’automobile nel parcheggio del centro commerciale. La musica che aveva invaso l’abitacolo fino a un attimo prima s’interruppe lasciando uno strano silenzio ovattato. L’uomo scese dall’auto, lasciando dietro a sé il rumore delle chiusure degli sportelli attivato dal pulsante sulla chiave. Si avviò lungo le scale mobili che lo avrebbero portato al quarto piano. Si guardava intorno con aria attonita e si chiedeva il motivo di un appuntamento in un luogo così rumoroso.
Entrambi odiavano la folla e lo sfavillio caratteristici dei grandi centri del consumo. Eppure, quella mattina quando rispose al cellulare che vibrava sul suo comodino sentì la voce di Giulio che gli diceva che lo avrebbe aspettato al bar del quarto piano vicino la libreria intorno a mezzogiorno. Non aveva fatto in tempo a rispondere che la chiamata terminò.
L’uomo quella mattina non avrebbe lavorato e aveva deciso di dormire, così la vibrazione del cellulare lo aveva svegliato. Non si stupì molto della telefonata dell’amico, era solito comportarsi così: chiamare, parlare e non attendere nessuna risposta, ma nonostante si fosse appena ripreso dall’abbraccio di Morfeo sentì nell’inflessione della voce di Giulio qualcosa di preoccupante. Decise di non pensarci finché non fosse arrivato all’appuntamento.
Si alzò e, come ogni mattina, diligentemente, andò in cucina per prepararsi il suo caffè. Mentre aspettava di sentire il ribollire del liquido nero nella moka si affacciò alla finestra e iniziò a scrutare le automobili e i passanti che attraversavano la strada sottostante. Pensò che Giulio fosse entrato nella sua vita senza che se ne rendesse conto e che ormai era come se ci fosse da sempre.
Non erano amici di vecchia data, lo conosceva da appena tre anni. Lo incontrò su un set fotografico sull’isola d’Elba. Lui era il fotografo mentre Giulio si era occupato del casting delle modelle. Carlo, così si chiamava l’uomo, non amava quel genere di lavoro, solitamente fotografava paesaggi per riviste scientifiche, ma in quel periodo si trovava in ristrettezze economiche e quando una sua cara amica gli propose quel servizio si vide costretto ad accettare. Non era andata poi così male: pochi giorni, un lavoro semplice, una squadra efficiente e un alto guadagno. Giulio sulle prime non gli piacque. Sembrava il tipico ruffiano dell’ambiente della moda. Ma una sera si ritrovarono entrambi a passeggiare davanti alle navi ancorate al porto e scoprì che i suoi pregiudizi erano infondati. Parlarono a lungo sorseggiando birra. Rispetto a lui, Giulio era molto socievole e per alcuni versi invadente. Un tipo alla mano. Carlo era molto più riservato, ma si lasciò coinvolgere dai suoi modi bonari ed espansivi. Dopo appena mezz’ora già sapeva tutto della sua vita: il divorzio, le due bambine che non riusciva a vedere spesso ma che amava immensamente, le sue relazioni con alcune modelle, la morte improvvisa del padre che l’aveva sconvolto, l’incontro con Marie, una francese che aveva rapito il suo cuore. Carlo annuiva e ogni tanto portava il collo della bottiglia alla bocca mentre Giulio continuava il proprio monologo fiume sciorinando racconti in un modo ironico e piacevole, finché non disse una frase che colpì molto l’altro:
– Mi sbatto, mi muovo, giro, mi tengo attivo ma continuo a sentirmi scollegato.
– Scollegato? – gli chiese. Fino a quel momento non era mai intervenuto ma quella parola accese qualcosa dentro di lui.
– Sì, scollegato! Come dirti? Mi sento di non avere alcuna connessione con il mondo. Sì, il lavoro, gli amici, le donne, le mie bimbe… ma è come se fossi un automa che deve fare queste cose, che deve interpretare dei ruoli perché la convivenza ce lo impone. Ma il mio io è staccato da questi altri me che agiscono. Lo vedo altrove ma non è collegato a nulla. È sospeso a un palmo da terra ed è immobile.
Anche Carlo provava spesso questa sensazione e rimase molto stupito di sentire quelle parole da un semisconosciuto che, per di più, era caratterialmente agli antipodi da lui. Da quel momento iniziarono a frequentarsi. Erano soliti cenare insieme almeno una volta a settimana. In altre occasioni, Giulio si presentava da lui per un caffè e quando si trovava fuori per lavoro, al rientro, lo andava a prendere all’aeroporto. Non uscivano mai con altre persone.
La relazione di Giulio con Marie continuava e anche i suoi tradimenti, ma trovava sempre il tempo per parlare con il suo caro amico fotografo. Nonostante questo, Carlo non era mai riuscito a parlargli della moglie. Era un argomento che non riusciva a trattare con nessuno, che aveva riposto in un angolo buio del suo cuore e che stava bene attento a non far emergere da quel luogo nascosto e protetto. Avevano parlato molto spesso delle loro relazioni sentimentali, ma Giulio non poteva immaginare che Carlo fosse stato sposato. Anche in casa non teneva nulla che gli ricordasse quei due anni trascorsi con lei. L’unico ricordo era la fede che portava dentro il portamonete. Per il resto aveva cancellato tutto. I ricordi a volte riaffioravano, ma Carlo li ricacciava indentro dedicandosi al lavoro e alle mansioni quotidiane. Erano trascorsi ormai cinque anni.
Un giorno, a casa di Giulio, dopo una cena frugale, i due sedevano sul divano. Lo stereo spandeva a basso volume le note dei Radiohead, mentre loro fumavano, bevevano un rosso del sud e chiacchieravano con lunghe pause di silenzio. All’improvviso Giulio smise di parlare. Lo guardò dritto negli occhi e gli chiese, serio: – Ma tu sei felice?
Carlo distolse lo sguardo e indicò la destra di Giulio: – Passami il posacenere per favore – fece, senza rispondere. Non diede minimamente importanza alla domanda dell’amico. Era come se non avesse sentito le sue parole. Giulio rimase a guardarlo per un po’ in silenzio, i suoi occhi erano pieni di compassione, ma durò solo un attimo, prese il posacenere e glielo porse riprendendo i suoi soliti discorsi.
– Ti ho mai raccontato di quella volta che stavo facendo un casting a Mosca? Quando è arrivato il produttore, un tipo sui sessanta con una pancia bella rotonda e un viso paonazzo…
Carlo lo interruppe.
– Questa è almeno la ventesima volta che me la racconti.
Quella sera tornando a casa si chiese se fosse mai stato felice in vita sua. Automaticamente prese dal portamonete la fede e la strinse nel pugno.
Aveva seguito un corso di fotografia a venti anni mentre frequentava la facoltà di scienze biologiche. Iniziò a fotografare ogni cosa, ma quello che più lo rilassava erano i paesaggi. Durante i suoi viaggi si perdeva in lunghe peregrinazioni in luoghi solitari e riportava a casa una quantità incredibile di scatti.
Quando era ormai prossimo alla laurea, una sera sua madre invitò a cena un’amica. Erano solo loro tre, il padre si era trattenuto a lavoro per un’urgenza. Carlo era appena tornato dalla Siria e stava raccontando la meraviglia provata di fronte alle rovine di Palmira. L’amica della madre gli chiese se avesse scattato delle foto, così lui gliene mostrò alcune. La donna rimase impressionata, trovandole molto belle. Qualche giorno dopo, Carlo fu contattato dalla redazione di una rivista scientifica. E così iniziò la sua carriera di fotografo professionista. In seguito, venne a sapere che l’amica della madre in passato aveva lavorato nell’ambiente editoriale e che aveva parlato delle sue foto al direttore del magazine.
In quel periodo si frequentava con una ragazza conosciuta all’università, ma quando iniziò la sua carriera, a causa dei continui reportage che a volte lo portavano all’estero anche per diversi mesi, quella relazione finì. Non ne soffrì, era abituato a storie fugaci e temporanee. Con le donne era così, da sempre. Non che non fosse passionale, tutto il contrario. Le amava, ha amato tutte le donne con cui era stato. Ma l’amore durava il tempo di prendersi tutto quello che loro avevano da dare. Poi svaniva, senza che lui riuscisse a dare nulla in cambio. Ma quando incontrò la sua futura moglie le cose non erano andate così.
La vide la prima volta in un bistrot che si affacciava sulla piazza Jāmiʿ el-Fnā a Marrakech. Era con delle amiche e rideva con molta disinvoltura. Aveva un abbigliamento da viaggio: pantaloni di cotone verde militare con tasche laterali, una canottiera nera attillata che le fasciava il corpo ben tornito e dalla carnagione olivastra. Ai piedi calzava sandali da trekking. I capelli erano un po’ mossi, neri, sottili e tagliati corti. Il suo sorriso era raggiante e Carlo restò qualche minuto a fissarla. Sentiva solo alcune parole che le tre amiche si dicevano: domani… deserto… Ourzazate… dieci giorni. E le loro risate continue.
Capì che avrebbero fatto il giro verso sud arrivando nel deserto e poi risalendo verso Rich, Meknes e infine Casablanca. Praticamente il suo stesso itinerario. Infatti, la incontrò diverse volte durante quel reportage e ogni tanto si scambiarono qualche parola.
– Sei qui in vacanza o per lavoro? – gli chiese un giorno in un albergo di Rich. – Sai ti ho visto spesso in questi giorni con tutta la tua attrezzatura.
– Sono qui per lavoro. Devo fare un reportage sulle bellezze del Marocco. Prese la macchina fotografica, la impugnò portandola davanti al volto e iniziò a roteare lo zoom.
– Posso fotografarti?
Lei rise di gusto e gli disse: – Ma non sono marocchina.
– Ma bella si – aggiunse Carlo.
Lei ancora ridendo annuì. Lui non capì se fosse perché acconsentisse a farsi fotografare o se assentisse al suo complimento. Comunque, scattò.
Continuarono a parlare ancora un po’ finché una sua amica non la chiamò. Allora la donna lo salutò e si avviò girandosi spesso e sorridendo. Quando raggiunse la sua amica, Carlo le vide confabulare qualche secondo, prima di voltarsi verso di lui ridendo ad alta voce. Il giorno seguente sarebbe rientrato e così la mattina aspettò la donna al buffet per colazione e le chiese un contatto per inviarle la foto.
In seguito, dopo un lungo scambio di e-mail, iniziarono a frequentarsi assiduamente. Andavano al cinema, alle mostre, qualche volta a tetro. Facevano passeggiate interminabili, parlavano molto, prima e dopo aver fatto l’amore. Lui era rilassato con lei. Era sempre pronto ad accarezzarla in ogni momento, aveva bisogno di sentire il contatto fisico e lei ne era felice. Ridevano tanto, scherzavano e si cercavano in continuazione.
Carlo si convinse che questa volta la storia non si sarebbe esaurita come tutte le altre. Sentì, non immediatamente, che l’amore e la passione non coincidevano. C’erano entrambi ed erano ben distinti. Capì che, anche se si fosse consumata la passione, sarebbe subentrato il sentimento a dare continuo nutrimento. Non si sarebbe preso tutto senza dare, avrebbe ricevuto e dato in un equilibrio perfetto che gli era sconosciuto fino a quel momento.
Lei si stava laureando in lettere. Stava finendo di scrivere la sua tesi sui significati archetipi nei supereroi americani.
Una sera, dopo aver fatto l’amore gli raccontò uno dei capitoli che stava scrivendo.
– Superman rappresenta la forza, l’invulnerabilità, l’onnipotenza. Impersona l’ideale di uomo onesto e altruista. Ma non è un uomo. Non è umano, e non solo perché viene da un altro pianeta e perché ha dei poteri particolari. Non lo è perché usa questi poteri in un modo che l’uomo non userebbe mai.
– Vuoi dire che gli uomini userebbero questi poteri per un loro tornaconto e non per aiutare gli altri disinteressatamente?
– Sì. È proprio questo che voglio dire. È Lex Luthor a rappresentare l’umanità. Quando scopre che Clark Kent è Superman non riesce a crederci: “un uomo con il potere di Superman non può fingere di essere un comune terrestre! Quel potere deve essere sfruttato continuamente… deve essere usato!”. Superman è più una divinità. O un semidio, con un suo punto debole, come il tallone di Achille. Lui allo stesso modo è vulnerabile. Ha un ostacolo alla sua onnipotenza.
– La kryptonite.
– Esatto. Quindi non è umano ma non è neanche un Dio a tutti gli effetti. È la rappresentazione del bene. E in questo incarna l’archetipo che l’uomo da sempre rincorre, ma che mai riesce a raggiungere.
– Ma Superman non è il solo a rappresentare questo mito.
– No, certo. Ma è l’emblema. Poi nel corso degli anni con il declino dei supereroi il suo posto è stato preso da altri come il Dottor Manhattan di Watchman. Ma questo è un altro capitolo e te lo racconterò un’altra volta. Ora accarezzami.
– No, dai sono curioso. Continua.
– Sai qual è il mio Supereroe preferito?
– Batman!
– No. Sei tu. E ora devi salvare una povera fanciulla indifesa che ha voglia di dormire. Aiutala a prendere sonno con il tuo potere. Accarezzala!
E lui la accarezzava e aspettava che si addormentasse.
Le giornate trascorrevano serenamente. In quel periodo i suoi viaggi per lavoro duravano solo pochi giorni, erano tutti servizi brevi, così poteva stare molto tempo con lei. Spesso lei veniva a casa sua e scriveva mentre lui leggeva o si occupava di altre necessità. Da un anno circa viveva da solo in un appartamento molto luminoso che gli era stato regalato dai genitori. Si rendeva conto di essere un privilegiato e qualche volta provava un terrore irrazionale per la fortuna che stava vivendo. Temeva che tutto potesse finire da un momento all’altro. La solarità di lei, però, lo coinvolgeva e lo riportava a viversi pienamente la gioia di quei momenti.
Quando lei lo vedeva preoccupato, lo prendeva in giro.
– Oggi non sei riuscito a salvare il mondo, mio bel supereroe? – e gli sfiorava i capelli con la mano.
Lui sorrideva, sospirava e chiudendo gli occhi si riempiva di quella carezza.
– Una vecchietta è riuscita a sfuggirmi, aveva appena rapinato una banca. L’ho intercettata, mi stavo gettando su di lei, ma appena sono arrivato è apparsa una balena che con un colpo di coda mi ha fatto rotolare indietro. Poi ha aperto la bocca, la vecchia è sgattaiolata dentro ed entrambe sono sparite all’improvviso. Non sapevo più cosa fare – e ridevano entrambi.
– Com’era la vecchietta? Di quelle da film americano con ombrello, cappellino e impermeabile o tipo vecchietta del sud in abito nero e crocchia in testa?
Lui rifletté per qualche istante.
– Un metro e settanta circa. Capelli corti cotonati e un po’ radi. Un trucco molto accentuato e un rossetto di un rosso vivo, che mentre rideva trasformava le sue labbra in una smorfia grottesca. Aveva un tailleur verde e scarpe da ginnastica e in mano, oltre alla borsa dei soldi, un guanto da forno.
– Un guanto da forno? – chiese lei seria.
Lui annuì. – Un guanto di quelli che servono a tirare fuori le cose dal forno caldo senza bruciarsi. È già la seconda volta che mi sfugge.
– Povero il mio eroe. Dileggiato da una nonna che fa i biscotti – e rideva rumorosamente.
In questo modo Carlo dimenticava la sua ansia immotivata e riprendeva il buon umore.
Un giorno erano seduti in automobile, fermi al semaforo rosso.
– Mi sposi? – disse lui guardando dritto davanti a sé.
– Sì – rispose lei, senza esitare e guardando dall’altra parte della strada.
Dopo cinque mesi, erano marito e moglie. Carlo continuava a scattare foto, mentre lei lavorava part time in una casa editrice che pubblicava fanzine per adolescenti e riviste di giochi al computer. Non aveva trovato ancora nulla di meglio, eppure non si lamentava.
Nessuno dei due sembrava stancarsi dell’altro.
Due anni dopo lei morì.
Carlo arrivò al quarto piano e vide che Giulio era seduto a un tavolo del bar. Si avvicinò e notò che l’amico si guardava intorno con aria preoccupata. Si sedette di fronte a lui.
– Ciao – disse.
– Ciao – rispose Giulio.
Carlo non voleva essere diretto ma le parole uscirono prima che facesse in tempo a riflettere.
– Che ci facciamo qui?
– Io sto bene, grazie – disse Giulio.
L’altro sospirò. Vide che l’amico aveva già preso due caffè. Andò al banco e se ne fece preparare altri due. Tornò e porse una tazzina a Giulio.
– Come stai? – gli chiese.
– Bene, te l’ho già detto.
– Mi fa piacere.
Versò lo zucchero e prese il cucchiaino per iniziare a girarlo.
– Come mai siamo qui? – chiese calmo.
– Per bere un caffè – rispose Giulio.
– Tre in realtà – disse sorridendo. E aggiunse in tono sarcastico – È particolarmente buono il caffè qui? Non ci eravamo mai venuti. Quando l’hai scoperto?
– Oh, dai! Un posto vale l’altro.
– Eh, no! Non quando il posto in questione è di quelli che odiamo tanto.
– Sì, ma qui c’è gente.
– Appunto. A noi la folla piace. Dimenticavo – disse ironicamente.
– No, non ci piace. Ma ci serve.
– Ci serve la gente? – Carlo non capiva. Attese in silenzio che Giulio si decidesse a chiarirgli la situazione.
Giulio si prese tutto il tempo necessario. Bevve il suo terzo caffè senza zuccherarlo. Si guardò ripetutamente intorno e finalmente disse, abbassando la voce: – Ho ricevuto una telefonata – e si interruppe.
– Ah, ecco spiegato tutto. Anche io questa mattina ho ricevuto una telefonata e ieri credo una decina.
Giulio lo fulminò con lo sguardo e Carlo capì che non era il caso di insistere con l’ironia. Annuì e attese che l’amico continuasse.
– In realtà è circa una settimana che ricevo strane telefonate. L’altra sera non te ne avevo parlato perché volevo capire e perché il tuo nome ancora non era stato fatto.
– Il mio nome? – chiese Carlo.
– Sì. Il tuo nome. Lasciami spiegare e non mi interrompere.
Carlo si rilassò sulla sedia e attese il racconto.
Da circa una settimana il suo amico riceveva sempre alle stesse ore, tre volte al giorno, delle telefonate da un numero sconosciuto. Rispondeva la voce di un signore di età indefinibile, molto compita ed educata. La prima volta aveva pensato a uno scherzo.
– Parlo con il Signor Montova?
– Sì, sono io – rispose Giulio.
– Mi duole disturbarla mentre si trova occupato nei suoi affari, ma mi vedo costretto. Purtroppo, devo parlarle di una questione assai delicata.
– Di cosa si tratta?
– Giovanotto, non corra. Per ogni cosa ci vuole il suo tempo. Per ora si accontenti di sapere che lei è nei guai. Ora sfortunatamente la devo lasciare, ma la richiamerò.
Giulio aveva deciso di non preoccuparsi e sorridendo tra sé pensò che non ci fosse limite alla fantasia umana.
Poi lo stesso giorno ricevette una seconda telefonata.
– Signor Montova si sente bene? Mi auguro di non averle creato dei problemi. Deve capire che io sto solo cercando di aiutarla.
– Mi vuole dire chi è lei e cosa vuole da me?
– Voglio che lei faccia qualcosa. Deve farlo per evitare che possano esserci dei guai.
– Sì, ma lei chi è?
– Non deve fare domande, deve ascoltare. Deve recepire tutto quello che le dico senza dimenticare nulla. Ora devo salutarla.
– No, non chiuda – ma la comunicazione era terminata.
Non sapeva cosa pensare. La cosa più probabile era uno scherzo. Decise di vedere dove sarebbero andati a parare. Riprese le sue occupazioni e la sera ricevette la terza telefonata.
– La sento rilassato, Signor Montova. Mi fa piacere.
– In realtà sono solo curioso di sapere chi è che mi sta facendo uno scherzo.
– Rifletta bene e capirà che nessuno sta scherzando. Ha capito tutto quello che le ho detto fin’ora?
– Sì. Certo.
– Sicuro? Ricordi che non deve dimenticare nulla o tutto sarebbe irrimediabile. Dipende solo da lei.
– Ma devo salvare il mondo? – disse sorridendo.
– Non scherzi e non sottovaluti la faccenda. Ancora non ha capito quanto sia grave?
– Cosa ci può essere di più grave della fine del mondo? – e rise.
– Lei non vuole proprio capire. Se continua in questo modo tutto sarà perduto. Mi dia retta giovanotto, non c’è da scherzare. La lascio riflettere.
Non riusciva proprio a capire. Anche se fosse stato uno scherzo, qual era lo scopo? Volevano farlo preoccupare? Tutto si sarebbe ridotto a quello? Una punta di inquietudine iniziò a insinuarsi.
Nei giorni successivi continuarono quelle strane conversazioni: sempre gli stessi modi garbati, sempre lo stesso accenno a una questione delicata, sempre il monito a non dimenticare nulla. Ogni chiamata aggiungeva un piccolo particolare nuovo che sembrava insignificante. Giulio era convinto che non ci fosse nulla di serio ma il dubbio iniziava a insinuarsi. Si chiedeva in continuazione quale potesse essere la questione di cui voleva parlargli. Mise in rassegna tutte le possibili varianti: qualche amante geloso, qualche collega a cui aveva fatto torto, qualche donna delusa dai suoi comportamenti. Per quanto si sforzasse non riusciva proprio ad immaginare e intanto aspettava la chiamata successiva. Cercò di fare il punto della situazione in base alle poche frasi che fino a quel momento aveva recepito: si trattava di una questione delicata, doveva stare attento, era nei guai, se avesse fatto la cosa giusta ne sarebbe uscito indenne. Questi erano gli elementi su cui riflettere. La sua apprensione aumentava, c’era qualcosa di perentorio e intimo in quella voce: ne era allo stesso tempo allarmato e rassicurato. I giorni passavano e lui aspettava con ansia di sentire quella voce. Iniziò a non pensare ad altro. Stava diventando inappetente, vagava nella sua quotidianità con un pensiero fisso. Oramai la voce si era impossessata di lui. Ne era dipendente e lo atterriva. Era totalmente in balia di lei. Ogni telefonata lo lasciava con quella sensazione di allarme e sicurezza.
Carlo osservava l’amico mentre raccontava, vedeva il suo sguardo fisso sulla tazzina, uno sguardo vacuo. Vedeva le sue mani che freneticamente ne accarezzavano il bordo. Pensò di dire qualcosa, di avvicinare la sua mano su quella di Giulio per rassicurarlo. Ma rinunciò. Pensò fosse meglio attendere il resto del racconto.
– Oggi, è arrivata la svolta – disse. – Questa mattina mi ha chiamato prima del solito. Rispondo, i soliti convenevoli: “come sta oggi? Si sente bene?”. Poi continua, dicendomi: “Mi sembra alquanto preoccupato, ma come le ho detto non ne ha motivo se fa esattamente quello che le dico”. “E cosa dovrei fare?”, chiedo io. “Mi ascolti bene, chiami il suo amico Carlo e gli racconti tutto”. Io interrompo: “Carlo? Che c’entra Carlo in questa storia? Mi vuole dire chi è lei e cosa vuole da me?”, gli ho urlato. “Stia calmo e non urli. Non deve essere impaziente. Voi giovani non cambierete mai. Non mi interrompa e ascolti, il tempo stringe ormai e io non posso più aiutarla. Ha capito?”. “Capito cosa?”, chiedo esasperato. “Intanto che deve ascoltarmi senza interrompere e poi che deve raccontare tutto al signor Carlo”. “Ma tutto cosa? Mi scusi!”. Ormai non sapevo più se arrabbiarmi o iniziare a ridere. “Allora lei non vuole proprio capire. Gli dica quello che le ho detto questa settimana. Mi raccomando non dimentichi nulla, probabilmente questa è l’ultima possibilità. Continui la sua vita e faccia quello che le ho detto. Se dimentica anche solo un particolare saranno guai. Io non posso più aiutarla. Ma stia tranquillo, sono certo che andrà tutto bene, parli con il suo amico e tutto si risolverà. Ora la devo salutare”.
Finito il suo racconto, Giulio guardò l’amico con sguardo perso e si distese lungo lo schienale della sedia. Sperava che Carlo lo aiutasse a capire.
– Qualcuno che ci conosce e ci sta facendo uno scherzo?
– L’ho pensato anch’io – disse Giulio – ma non riesco a immaginare chi possa essere. Quella voce non l’ho mai sentita e poi, da quando ci siamo conosciuti, non abbiamo lavorato più insieme. Chi vuoi che si svegli dopo tre anni per tirarci un tiro del genere?
– Non hai tutti i torti. Quindi?
– Quindi non lo so. Speravo che tu potessi capire. Così almeno mi ha detto l’uomo.
– Sinceramente, Giulio, non saprei proprio da dove cominciare. Intanto sono convinto che si tratti di uno scherzo e che non ci sia niente di preoccupante…
Giulio lo interruppe – Non ne sarei così sicuro. Capisco che per te non sia niente di grave, ma tu avresti dovuto sentire quella voce. Aveva un tono categorico e paterno. Anche io ho pensato a uno scherzo ma ad ogni telefonata mi convincevo sempre di più che fosse qualcosa di serio. E poi… – si interruppe. I suoi occhi vagarono intorno e si posarono su quelli dell’amico. Sembrò che implorasse comprensione.
– E poi il suo tono era ineluttabile. Ti costringeva a fare come lui voleva. Io ho seguito esattamente le sue indicazioni e ti ho detto tutto.
– Senza dimenticare nulla? – chiese Carlo sorridendo. Non riusciva proprio a prendere seriamente tutta quella faccenda.
Giulio rimase a riflettere qualche minuto. I due si guardavano e Carlo non aveva alcuna fretta. Era divertito anche se dispiaciuto per il disagio dell’amico. Decise di restare calmo e di farlo rilassare assecondando i suoi tempi e le sue ansie. Finalmente, l’altro riprese.
– Pensandoci bene, non credo di averti detto tutto. Ho cercato di ricordare le telefonate e tra le cose che di volta in volta aggiungeva, una mattina mi disse: “la smorfia della vecchietta si deforma sempre di più”.
A quelle parole Carlo trasalì, ma cercò di restare calmo. Per quanto si fosse sforzato, però, Giulio si rese conto che qualcosa si era acceso nella sua mente.
– Ti dice qualcosa? – chiese.
Carlo non rispose immediatamente, nella sua testa iniziarono a vorticare una serie di ricordi del “gioco” della vecchietta e la balena che mettevano a repentaglio il mondo. Ma com’era possibile che qualcuno ne fosse a conoscenza? Era un modo che avevano lui e sua moglie di scherzare. Era il modo che lei aveva per distrarlo dalle sue paure. Come faceva una voce a sapere questo? Cercò di distendere i pensieri, di fare aria nel suo cervello e di riprendere la razionalità che lo caratterizzava. Ostentò serenità e chiese all’amico: – Cerca di ricordare le esatte parole.
Giulio sembrò rassicurato, capì che finalmente non era più solo in quella faccenda e si sentì rilassato. Con un tono disteso riferì il contenuto di quella telefonata.
– Caro Signor Montova ha avuto modo di riflettere?
– Non ne ho avuto il tempo. Sono molto occupato.
– Male. Lei deve dare la primaria importanza a questa situazione. Deve essere la sua priorità. La questione si fa sempre più delicata. Se non interveniamo accadrà il peggio.
– Ma perché continua con questo scherzo?
– Giovanotto, lo sa anche lei che non sto qui a raccontar fandonie. Non mi faccia perdere tempo con queste sue continue interruzioni. La smorfia della vecchietta si deforma sempre di più. Se non interveniamo sarà la fine.
– Ma quale vecchietta. Ma si rende conto delle sue sciocchezze?
– Non sono sciocchezze. Deve capirlo altrimenti, se non mi crederà, non farà quello che deve fare. Continui a riflettere e ricordi tutto. Ora devo andare.
Carlo lo osservava in silenzio. – E nient’altro?
– No. Nient’altro. L’avevo dimenticato. Mi sono concentrato tutto il tempo a pensare a quale fosse la cosa delicata che questa storia della vecchietta l’avevo proprio cancellata. E poi era una cosa così assurda che mi sono rifiutato di prenderla in considerazione. Mentre per te sembra una cosa normale. Ma perché ti ha colpito?
Carlo mentì. – Non mi sembra affatto normale e la trovo anche io assurda, come tutta questa situazione.
Rimase in silenzio.
Giulio, lo incalzò.
– Quindi?
– Quindi assecondiamo la voce.
Aveva bisogno di riflettere da solo e cercò un modo per poter andare via. Doveva tranquillizzare l’amico, però.
– Ascoltami. Mi avevi detto che sei in partenza per la Francia. Prepara le tue cose e vai. Da quanto mi hai raccontato il tuo ruolo nella questione è finito, dovevi raccontarmi tutto e l’hai fatto. Questo ti ha ordinato l’uomo no?
– Sì, ma tu?
– Per me non preoccuparti, credo che non ci sia nulla di allarmante. Se è uno scherzo finisce qui. Se non lo è si faranno vivi con me.
Giulio sembrò soddisfatto. Del resto, appena aveva finito di raccontare era come se un macigno gli fosse stato tolto dalle spalle, si sentiva più leggero. Decise che non sarebbe più stato un suo problema e aveva fiducia nell’amico. Ormai era tutto risolto.
– Dai, Giulio. Ora vado. Chiamami appena torni così mi racconti di Saint Tropez.
I due si abbracciarono e si salutarono.
Carlo si diresse verso la scala mobile e andò dritto al parcheggio sotterraneo. Si era convinto che tutta quella strana situazione racchiudesse un messaggio per lui. Non capiva come mai era stato coinvolto Giulio in questo, ma era chiaro che il destinatario finale fosse lui e non l’amico. Giulio era stato solo una pedina necessaria per raggiungerlo. Ma perché non arrivare direttamente a lui?
I suoi pensieri non riuscivano ad essere lucidi. Sensazioni, ricordi, emozioni gli esplodevano dentro, ma continuava a tenerli a bada. Si sforzava di non farli uscire. Si costrinse a restare calmo e salì sulla sua automobile. Appena accese il quadro dei comandi, la musica si riavviò insieme al motore. L’abitacolo si riempì della melodia di Echoes dei Pink Floyd e Carlo rilassò i suoi nervi. Andò a casa, lentamente, senza fretta. Una parte del suo cervello aveva dato il comando: accendi il suo pc. Ormai sapeva cosa doveva fare e non c’era motivo di correre.
Parcheggiò sotto casa. Scese dall’automobile e si diresse verso il portone. Salì lungo le scale e si fermò al secondo piano. Rimase qualche istante davanti alla porta. Sospirò e la aprì. Andò in cucina, bevve un bicchiere d’acqua e prese le chiavi del garage che erano appese nel ripostiglio. Le infilò in tasca e andò a sedersi sul divano. Aprì il pacchetto di Davidoff e prese una sigaretta. La portò lentamente alle labbra la accese e aspirò. Si lasciò cadere con la schiena sul dorso del divano e fumò con calma. Si concentrò sul fumo che usciva dalla sua bocca, non voleva che i suoi pensieri assecondassero le emozioni che stava faticosamente ricacciando in dentro. Per un attimo decise che non avrebbe preso il pc, ma il comando era già stato dato e per quanto non volesse, improvvisamente il suo corpo si mosse. Andò in garage e aprì l’armadio dove erano impacchettate tutte le cose di lei. In una scatola c’erano il suo portatile e due hard disk. Prese tutta la scatola e la portò nell’appartamento. Posò tutto sul tavolo del soggiorno prese un’altra sigaretta e tirò fuori il pc.
“Chissà se funziona ancora”, si chiese, quasi speranzoso del contrario. Il led si illuminò e il rumore della ventola si azionò: il pc prese vita dopo anni di silenzio.
“Magari con le persone che escono dal coma è la stessa cosa, a un certo punto qualcuno spinge un pulsante e tutto si riavvia”, pensò. Lo schermo si accese e si sentì il suono di avvio. Sul desktop c’era la foto di Superman con il volto ritoccato. Si ricordò quando la vide la prima volta e le disse sorridendo: – Tu sei proprio toccata! Ma come ti è venuto di mettere il mio volto su quello di Superman?
Lei rideva di gusto e la sua risata ancora riecheggiava nelle sue orecchie.
– Sei o non sei il mio supereroe?
– Va bene – disse lui – pur ammettendo questo – e sorrise – come mai Superman e non l’uomo ragno ad esempio? Superman non è umano, mentre l’uomo ragno lo è.
– Sì, ma è mascherato. Come faccio a mettere il tuo volto sotto la maschera? – Rimase seria per qualche istante e poi riprese – Superman si sforza di essere umano e questa foto rappresenta questo sforzo di arrivare al mio ideale di umanità, per questo ha il tuo volto.
Rimase immobile e riuscì solo a sussurrare “ti amo”!
Aveva dimenticato quel momento. Come tante altre cose. Si sedette davanti al pc, ormai il flusso era iniziato e non sarebbe stato possibile arrestarlo. Aprì tutte le cartelle alla ricerca di qualcosa che non sapeva neanche lui. Vari episodi e ricordi si susseguivano. Prese i due hard disk e fece lo stesso: foto, documenti, video e alla fine in una cartella chiamata Super hero trovò un file con lo stesso nome. Lo aprì e iniziò a leggere. Era un romanzo e lui ne era il protagonista.
Quando il suo sguardo si soffermò sulla frase la smorfia della vecchietta si deforma sempre di più, non riuscì più a leggere, le lacrime scendevano copiose sul suo volto.
Erano trascorse circa cinque ore da quando si era messo lì davanti, reprimendo ad ogni immagine e ad ogni parola letta le emozioni che stavano urlando dentro di lui. Ma alla fine tutto si è aperto come un fiume che attraverso una piccola breccia distrugge la diga e prende possesso di nuovo del suo corso naturale. Così, il fiume interno di Carlo riprese il proprio corso distruggendo quella diga di silenzio e vuoto che per tanti anni aveva opposto resistenza al suo fluire. Pianse a lungo, senza trattenersi, si sentiva come un bambino stretto tra le braccia di sua madre, tutta la paura era sparita, non doveva più nascondersi da nulla. Quell’abbraccio l’avrebbe protetto. Si ricordò tutti i particolari degli anni vissuti con lei e si lasciò invadere dalla gioia per averli vissuti e dall’immensa tristezza per non poterne vivere altri. Ma si sentiva bene. O meglio si sentiva. Era collegato, finalmente.
Quella notte dormì profondamente, sognando. Il mattino successivo si preparò per andare al suo studio, aveva alcune faccende da sbrigare.
Apparentemente sembrava che la sua vita non fosse cambiata. Ma tutto era diverso ora.
Quattro giorni dopo, Giulio lo chiamò.
– Sono tornato! Hai novità?
– Tutto bene. Poi ti dico. Passa da me stasera, ho appena comprato del pesce.
– Sicuro che vada tutto bene?
– Sì. Non potrebbe andare meglio. A dopo.
– Ok. A dopo.
Giulio si presentò alle 20.30 precise con una bottiglia di bianco, fresca di frigo. Entrò e andò in cucina. Vide Carlo davanti al forno, lo salutò con una pacca sulla spalla e si diresse al cassetto per prendere il cavatappi. Stappò la bottiglia, riempì due calici e ne porse uno a Carlo. Lo guardò dritto negli occhi e gli chiese: – Insomma, di che si trattava?
– Era un messaggio di mia moglie – gli disse con uno sguardo pieno di commozione, indicando la fede al proprio anulare.
Giulio rimase in silenzio, lo osservò per qualche istante e capì che era tutto risolto e non era necessario aggiungere altre parole. Non si stupì né dell’accenno a una moglie di cui mai aveva saputo l’esistenza, né chiese dove fosse ora o come si chiamasse. Nulla, alzò il bicchiere, sorrise, e bevve un sorso di vino.
In quel momento Carlo capì come mai il messaggio fosse giunto attraverso l’amico.
– Sai, in Francia ho conosciuto una modella… – esordì Giulio.
Non parlarono mai più di quelle strane telefonate.