Lasciatemi trovare il mio cuore
In occasione della Giornata internazionale contro l’omobitransfobia, D Zine ha voluto rendere omaggio a uno dei più imponenti autori maledetti del primo novecento, Emanuel Carnevali, pubblicando un suo breve racconto, Lasciatemi trovare il mio cuore, recentemente pubblicato in Racconti Ritrovati. Buona lettura.
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In una cavità blu scuro, unito a una piovra, io troverò il mio giovane amico, l’amico di una stagione lontana, una delle quasi dimenticate stagioni di mare e di sole sulla Riviera di Ponente.
Dormii una notte con lui ed egli mi chiamò con i nomi più dolci, ma non c’era ombra di pederastia in ciò, perché egli era giovane e forte e amava molto le donne, come anch’io le amavo. (Allora ero molto bello, ma questo è il tempo in cui non vi è più in me alcuna bellezza; ora sono quasi calvo, ma mi piace pensare d’essere ancora bello, perché la voce di una donna mi ha detto che lo sono ancora). Passammo insieme una notte di pulci e di cimici, di prurito, di agitazione, di grattamenti (come quella vecchia seccatura della letteratura americana, Ezra Pound, che si sente prudere per un eczema letterario. Più si sente prudere e più si gratta, e più si gratta e più si sente prudere: un circolo vizioso, privo di bellezza. Egli è un imbonitore notturno, che tiene sveglia la gente che ha bisogno di dormire).
Di giorno, Gioomin e io eravamo soliti andare in riva al mare, dove l’acqua è bassa e improvvisamente diviene più profonda, a cercare i sassi porosi dove si nascondevano i vermi che ci servivano come esca per pescare. Una volta mi portò lontano, in alto mare, su una barchetta, e io avevo paura che un vigoroso colpo di remi potesse far capovolgere la barca. Quel giorno il tempo era nuvoloso e a me pareva che il blu profondo dell’acqua nascondesse una velata, ma definitiva, minaccia.
Vorrei parlare di lui con entusiasmo, ma per esprimere entusiasmo dovrei, almeno, potermi alzare da questo letto che risucchia le mie energie e la mia vita, lasciandomi vuoto e desolato, flaccido come una medusa su uno scoglio. Vorrei poter dar sfogo a un ululato di gioia pensando ai momenti meravigliosi che ora se ne sono andati per sempre, come il sole che tramonta nel mare.
Lui era il Nettuno di quel bel mar Tirreno. Era il più forte sulla spiaggia e mostrava i muscoli sotto la pelle scura, con un orgoglio che si avvicinava alla ferocia. Io lo guardavo come si guarda un bel quadro in una lucente cornice dorata.
Il suo paese era Varazze; proprio il suo, e le montagne e il mare di Varazze sono verdi. La terra lì era come il gomito di un braccio steso sul mare ad abbracciarlo nella quiete e nel tumulto, come il braccio di una madre che sostiene il capo della sua bambina. Lui era tutto ciò che avrei voluto essere anch’io, Gioomin: forte come le scogliere che il mare impiega secoli a scalzare, bruno come la pietra delle scogliere, un audace tuffatore dalla risata fragorosa. Il mondo è per lui e per i forti, mentre io sono soltanto un debole pugno levato contro Dio, o come due pallide mani riunite nella preghiera, sempre un’infelice cosa deforme.
Oh, Signora Morte, prendimi, questo è ora il ritornello comune a tutte le mie canzoni! Prendimi con te e io ti sarò docile come un bambino, e io seguirò obbediente i tuoi passi senza terrore, sapendo che sei l’amante divina e il dono divino di Dio. Non voglio uccidere un verme che viene a salutarmi e attraversa il mio sentiero, oh, Signora Morte! Sarò buono e gentile con tutti quelli che seguiranno la stessa strada. Non parlerò troppo e, quando lo farò, non sarà a voce molto alta, come ho sempre fatto in vita. Mi limiterò a balbettare qualche parola nel tuo orecchio…