Cronache di un’odissea psicofisica
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Non mi interessa fare un discorso speculativo sull’ipotesi “se fossi al governo”. Ma una cosa mi sento di dire: se ti interessa il pensiero e l’azione politica (che si fondi sulla delega o meno), è fondamentale dotarsi di una rappresentazione della realtà verosimile, realistica, coerente. Quantomeno, se “non” una rappresentazione, “delle” rappresentazioni, da poter valutare e confrontare. In questo momento, chi ha nelle proprie mani un potere politico enorme (in una concentrazione che credo non si vedesse da tempo) mi pare non lavorare in alcun modo nel produrre una rappresentazione della realtà che risponda ad una qualche tipo di logica se non quella di giustificare le sue scelte politiche e mantenerci in questo stato di sospensione del presente e del futuro a tempo indeterminato. I dati (dei contagiati e dei morti), che ci vengono serviti ogni giorno, sono costruiti in maniera totalmente disomogenea, hanno vizi di ogni tipo e non si sta facendo assolutamente nulla per correggerli o sistemarli (perlomeno, questo è quanto ci è dato sapere). L’unica cosa che è in grado di fare in questo momento chi è al governo di questo paese è mantenerci in uno stato di incertezza che giustifichi l’emergenza e che ci sottoponga ai suoi umori, rispetto a chi e cosa sacrificare.
Questo è il racconto dell’esperienza, una come tante altre, di chi si è trovato lontano da casa, dai propri affetti, o anche solo dal paese che gli rilascia il documento d’identità, e ha provato a farvi ritorno.
Quando il virus incomincia a diffondersi e moltiplicarsi nei corpi in maniera molto più rapida di qualsiasi aspettativa nascono le prime preoccupazioni, e il virus inizia a colonizzare le menti e la psiche collettiva. Occupa sempre più spazio, sgomita, diventa impossibile non pensarci. Nonostante un emisfero di distanza, non si può sfuggire al virus, sia quello che colpisce gli organismi che quello che colpisce la mente.
Nel frattempo, tieni le dita incrociate, speri che tutto possa tornare sotto controllo, che è giusto preoccuparsi, ma non terrorizzarsi; conviene non pensarci e non parlarne troppo, altrimenti l’angoscia non farà altro che soffocarti. Ma niente, il virus ti insegue, ti perseguita, ogni volta che dirai una parola, in qualsiasi lingua, il tuo accento ti tradirà, capiranno che vieni da quella zona di terra dove la situazione sembra degenerare ogni ora, ogni giorno.
Ogni mattina, ti alzi, la differenza di fuso fa sì che in ogni chat, gruppo o conversazione ci siano una marea di messaggi, articoli, commenti sulla situazione, amic- che si disperano perché hanno perso il lavoro, altri che si disperano perché ci devono andare mettendosi a rischio.
Un amico ti scrive che continuano a farlo andare a lavorare. Già la situazione era pessima prima del virus: mezzi scassati, poca manutenzione, ritmi elevati, il padrone che si comporta come un caporale, la sua schiena dolorante… ora la situazione diventa tragica: l’angoscia di essere contagiati, che il padrone ti lasci a casa per l’ennesima volta, nessun dispositivo di prevenzione. Maledetti!
Nel frattempo, ti arrivano aggiornamenti dalle carceri. Una, tre, quattro, otto morti. Le carceri sono in rivolta, la voce gira, la paura del virus fa scattare la rabbia dei detenuti un po’ ovunque; t’incazzi pure tu per quelle persone lasciate a marcire in celle, come carne da macello. E se non li ammazza il virus, ci pensa la polizia.
Il virus ti ha contagiato, non riesci più a non pensarci, l’argomento è sulla bocca di tutt-, conviene incominciare a interrogarsi seriamente.
Le notizie da amic- e parent- sono sempre peggio, loro incominciano a chiederti “Che fai? Resti lì? Sei sicuro? Be’, forse meglio, qua è un disastro”.
Il dubbio ti assale, vedi che anche dove stai tu cominciano le prime misure restrittive, mezze quarantene, inviti a prendere le dovute precauzioni, chiudono i primi posti, il virus conquista ogni spazio, non si parla d’altro.
Ti svegli, guardi il cellulare: “noi, domani, abbiamo un aereo per tornare, ci hanno sospeso il progetto, tu che fai?”. Panico. “Che fai?”.
Guardi internet, tra due giorni non ci saranno più voli internazionali, se non pagando oro.
Sei lontano dall’aeroporto più vicino, non puoi raggiungerlo in tempi così brevi, i prezzi sono alle stelle; il volo di ritorno che avevi dal paese a fianco è stato cancellato. E ora?
Chi ti ospita è un amico, non vuole che tu torni, è preoccupato, perché tornare nel centro del vortice? “Resta qui, è più sicuro, non ci dai fastidio”.
Come puoi restare in casa di qualcuno a tempo indeterminato. Quando ristabiliranno i collegamenti?
Incominci a guardare come fare per tornare, così puoi guardare pro e contro.
2.300 € il volo più comodo (che comunque tanto comodo non è). Ti dici che è una follia, che non si può fare.
Passi una serata attanagliato dal dubbio, incontri un po’ di gente nuova, ma noti che alcuni appena scoprono da dove vieni si preoccupano, hanno paura, ti senti il portatore del virus, quello psichico, perché quello che infetta realmente i corpi sei abbastanza sicuro di non averlo importato tu, dal momento che è passato parecchio tempo da quando te ne sei andato dall’epicentro.
La mattina dopo ti svegli e capisci che non puoi stare lì. Intorno potresti creare disagio, la situazione non è facile, come ti sentiresti se finissi ricoverato e quelli intorno fossero contagiati? Se ricoverassero te, maledetto privilegiato, e lasciassero morire qualcuno di questo paese già martoriato?
In più, incominci a sentire il bisogno di essere là, quello che pare essere diventato il centro del mondo in pochi giorni.
Un paio di chiamate: hai trovato una serie di combinazioni che ti permettono di rientrare senza svenarti. Sarà complesso, ma forse si riesce, anche se ogni ora chiudono frontiere, aeroporti, compagnie aeree cancellano i voli.
Torni nella città dove avrai il tuo volo. Ti prepari, ti attrezzi, uno scambio di sguardi, non si riesce a resistere a salutarsi con un abbraccio, nonostante le indicazioni. Nel cuore hai paura che non riuscirai a tornare, in ogni caso dici: “all’anno prossimo”.
Tre voli, quattro paesi da attraversare e poi un numero non precisato di treni o bus ti aspettano. Incroci le dita, anche quelle dei piedi.
Tra il primo e il secondo volo scopri che l’orario del terzo è stato cambiato, non riuscirai ad arrivare ad un orario decente per prendere dei treni, pazienza. Atterri, accendi il cellulare, volo annullato, ce n’è un altro domani, oppure, prova a farti imbarcare in qualcos’altro che ti possa far avvicinare a casa.
Nulla.
Hanno cancellato quasi trenta voli, il desk è un delirio, code chilometriche per chiedere informazioni o un cambio alla compagnia. Molti danno in escandescenza, decidi di lasciare perdere per rispetto di que- lavorator- che si ritrovano ad affrontare una massa umana in delirio senza alcun dispositivo di protezione.
Una camminata nella città deserta. Era da tanto che non la vedevi. in giro trovi solo qualche turista isolato “che ci fanno ancora lì?”, ti chiedi. Non puoi fare a meno di notare come le uniche persone in giro sono clochard, migranti, tutt- razzialmente ben riconoscibili.
La loro presenza nello spazio pubblico si fa più evidente. D’altronde, se devono stare a casa, quella è la loro casa, ci organizzano partite di pallone, scherzano, giocano.
Prendi l’ultimo volo, un sospiro di sollievo, poi pensi a quello che ti aspetta: quarantena, cittadini delatori, gente che denuncia chi va a correre, ti trovi a fare discussioni surreali, pare che il virus (non quello fatto di RNA, lipidi e proteine) provochi anche demenza.
Ti accorgi che stai serrando la mascella, sei nervoso, provi rabbia. Una sensazione d’impotenza ti assale, piangi dalla rabbia.
Arrivi, ritiri il bagaglio in tempo record, ti dici “ci sei quasi”, vai alla biglietteria per prendere rapidamente un treno.
Niente.
Tutti i treni che superano la frontiera sono cancellati. Devi andare a una cittadina di confine, e poi da lì tentare con un tranello di superare la frontiera. Intanto si è fatto tardi. Raggiungi il paesello, anche questo deserto, e ti prepari per proseguire il giorno successivo. Intanto, da casa, tutti seguono in diretta le tue vicissitudini.
Mattina seguente, il grande giorno, ti prepari finalmente a raggiungere casa.
Niente.
Treni cancellati, non si può superare la frontiera se non con un treno la sera. Arriveresti oltre frontiera troppo tardi per usare le coincidenze degli altri treni che ti aspettano.
Disperazione.
Da casa pensano di venirti a prendere una volta superata la frontiera. Ci saranno mille controlli e poi ci sarà da fare per entrambi una quarantena assoluta. Un casino, meglio evitare.
Succede però che ci sono altre due persone nella tua stessa situazione. Subito vi capite; anche loro vengono da lontano e viaggiano da diversi giorni. Loro, per fortuna, hanno incontrato la solidarietà di un’altra persona, un’amica, che senza titubare si è messa a disposizione.
Attimi di discussione, poi si decide di superare la frontiera a piedi, per poi prendere un taxi fino alla stazione successiva. La solidale ci porterà fino alla frontiera.
Arrivati, il saluto è un abbraccio. Non si riesce a resistere al contatto, alla corporeità del saluto. Pensi: “sarà l’ultimo contatto fisico per quanto tempo?”. Ti sale l’angoscia. “Alla fine, l’avventura sta diventando divertente, perché tornare, chiudersi in casa, sarà troppo faticoso dopo due mesi di vagabondaggio”.
Fila tutto liscio, il taxista è gentile, si nota un po’ di paura, “Più che per il virus – dice – per i carabinieri che potrebbero fermarci”.
Sali sul treno di corsa, arriva il tuo cambio, sei di corsa, saluti rapidamente i compari di disavventure, non c’è più tempo per gli abbracci. “Buona fortuna”.
La coincidenza è precisa, stazione deserta, sali sul treno vuoto, arrivi all’ultimo cambio, scendi, nel secondo treno ci sono solo un paio di ragazzi che si scambiano dell’erba, pensi a come sarà complicato per la gente trovare dell’erba in questo periodo di pandemia.
Ti rilassi, arrivi alla stazione di casa, scendi, ti guardi intorno. “Speriamo non ci siano poliziotti. Arrivato fino a qua, sarebbe bello evitare la schedatura”.
Casa.
È un po’ come l’hai lasciata, se non fosse che è tutto surreale, non puoi abbracciare e baciare nessuno se non vuoi essere una fonte di rischio. Già, maledetto rischio, perché è proprio con questo che tocca avere a che fare continuamente. Qualcuno prova a quantificarlo, qualcuno a calcolarlo e prevederlo, ma alla fine è sempre una cosa che ti lavora nel conscio e nel subconscio, il cui peso è sempre lì, ondeggia, ci pensi, non ci pensi.
Ma cosa vale il rischio?
Il rischio di infettarsi, di provare dolore, di essere debilitati, di vedere una persona cara soffrire, di perdersi.
Una domanda che hai lì da quando sei partito, ma è come se la tua mente pensasse ad una cosa e nel frattempo il corpo si muovesse indipendente, per i fatti suoi, seguendo un flusso ben più grande, del quale fai fatica a vederne in contorni, provi a tratteggiarli, ma continuamente devi cancellarli e ridisegnarli.
A quanti e quali rischi ti sei esposto in questi mesi, in questi anni, quanti sono stati riflettuti e metabolizzati e quanti semplicemente attraversati inconsciamente? Pensi alle manifestazioni, a quelle che hai fatto e quelle a cui stavi andando, quanto sarebbero state rischiose?
Eppure, pare che tutto intorno a te si sia appiattito al solo rischio di contagiarti, di contagiare. Non importa a quali altri rischi possa esporre la riduzione del contagio, non importa nemmeno se la riduzione di quello o altri rischi possa tradursi nel fatto che ti resti solo più la vita, ma poco altro.
Pensi alle volte che ti sei ritrovato a cospirare co- compagn-, a cosa avresti voluto cambiare, ma quanti rischi c’erano di mezzo? Oltre a quello di fallire?
Ora sei nella tua camera che scrivi, forse sei al sicuro, forse dovresti investire il tuo tempo per tenerti un minimo in forma, per non lasciare che il tuo corpo si sfracelli su una sedia e i tuoi muscoli, il tuo cervello raggrinziscano, ma non ci riesci, sei come paralizzato a digrignare i denti per l’ansia di cosa ti sarà vietato fare domani, dopodomani e fra un mese.
Vorresti non essere impotente, ma lo sei, perché sei solo, confinato in quattro mura. Ti sembra che fuori tutto corra, il terremoto che sta scuotendo il mondo non porterà niente di buono se non si reagisce, ora, non domani.